Macché Stato-mafia ora Mattarella deve punire quei pm

Lettera aperta al Presidente della Repubblica

Macché Stato-mafia ora Mattarella deve punire quei pm

Illustre Presidente,

lei è siciliano, ha conosciuto la violenza della mafia, è stato amico, credo, e collega di partito di Calogero Mannino e di Nicola Mancino. Lei, come Pasolini, sa che non hanno intrapreso alcuna trattativa e ha il dovere di impedire che lo Stato e la vostra storia siano tenuti in ostaggio da ideologi travestiti da magistrati. Ora basta. Come altri hanno detto, non è un buon giorno quello in cui il corpo dello Stato sovverte i principi della Costituzione contro il diritto alla non colpevolezza, non soltanto a priori, ma dopo una sentenza. A catena, dopo il caso Palenzona-Bulgarella, le teorie e i teoremi sono sovvertiti nel processo. Ma quelli che sono toccati a Mannino e, con insopportabile lentezza, a Mancino, non sono processi, sono espressioni di tortura contro la dignità dell'uomo e contro i principi cristiani del rispetto dell'individuo. Sono una nuova Inquisizione.

Ora basta, Lei non si può permettere, per difendere questo stato, di non intervenire. Sia come presidente di tutti gli italiani, che hanno diritto alla verità storica prima che giudiziaria. Sia come capo del Consiglio superiore della magistratura, e deve sanzionare gli abusi di chi ha il potere di interpretare i codici oltre i fatti in nome di una visione o di un pregiudizio.

Un'assoluzione è un'assoluzione. Un fatto è un fatto. E, come scriveva Gesualdo Bufalino, «i fatti sono cocciuti». Non è così per i Pm palermitani che si occupano della cosiddetta, presunta, trattativa Stato-mafia, i quali, ai fatti, preferiscono i teoremi, anche quando questi sono smentiti dalla valutazione di un giudice terzo.

Che il senatore Mannino nulla abbia a che fare con la presunta trattativa Stato-mafia è, da oggi, un fatto acclarato in una sentenza del Gup del Tribunale di Palermo Marina Petruzzella, che lo ha assolto per non aver commesso il fatto. Eppure, con un sovvertimento dei più elementari principi di civiltà giuridica, un manipolo di Pm, obnubilati da evidenti pregiudizi e irremovibili nei presupposti dei loro teoremi, arriva ad ignorare punto una sentenza di assoluzione, anzi, a giudicare dai primi commenti, persino a rifiutarla, pur di difendere le proprie tesi. Uno di questi, Nino Di Matteo, elevato a simbolo dell'antimafia militante, attorno al quale è stato costruito un santuario di insindacabilità rispetto alle suggestioni delle sue ricostruzioni investigative, senza aver ancora letto le motivazioni della sentenza (il giudice ha annunciato che le depositerà entro 30 giorni), ha sorprendentemente dichiarato: «Ci opporremo». Non si capisce bene a cosa, visto che non conosce il contenuto delle sentenza.

C'è in questo annuncio un grave pregiudizio, perché egli manifesta, indipendentemente da quelle che saranno le valutazioni del giudice, la volontà di insistere sull'accusa, quasi fosse una sfida, un confronto personale con l'imputato, cui è negata la condizione propria di qualunque cittadino incensurato, e cioè la presunzione d'innocenza. Anzi, si ripete qui un vecchio e collaudato schema del più bieco giustizialismo, tanto in auge negli anni del regime caselliano a Palermo: non poteva non sapere.

È ormai chiaro a tutti come già in questa reazione istintiva, scomposta, irrituale, venga meno proprio l'indipendenza del Pm rispetto alla valutazione degli atti processuali, prevalendo una tesi precostituita, mentre il Pm nel nostro ordinamento ha il dovere

di cercare la verità. Non una verità, ma la verità dei fatti, non tralasciando elementi, indizi o prove favorevoli all'imputato. Davanti a queste evidenti irregolarità procedurali, a Lei tocca, presidente, d'intervenire.

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