Alla Camera la mobilitazione nelle chat dei gruppi parlamentari di maggioranza è iniziata ieri, tanto che nel primo pomeriggio è l'azzurro Enrico Costa a presentarsi nella sala della Giunta per le elezioni di Montecitorio per apporre una delle primissime firme al fascicolo per il referendum confermativo della riforma della Giustizia sottoscritto dai capigruppo Galeazzo Bignami (Fdi), Paolo Barelli (Fi), Riccardo Molinari (Lega) e Maurizio Lupi (Noi Moderati). Martedì comincerà invece la raccolta al Senato, con l'obiettivo di arrivare velocemente agli 80 deputati e 40 senatori necessari e dare il via alla consultazione referendaria che, ha detto il ministro della Giustizia Carlo Nordio, dovrebbe tenersi "entro aprile" del 2026.
Un appuntamento decisivo, di fatto il primo tempo di una lunghissima partita elettorale che si concluderà solo nel 2027 con le elezioni politiche. E che inevitabilmente avrà delle ricadute - in un senso o nell'altro - sul prosieguo della legislatura, nonostante Giorgia Meloni abbia più volte ripetuto che quello sulla separazione delle carriere non è un voto sul governo ma "per avere una giustizia più efficiente e giusta". Un approccio low profile, dovuto non solo al precedente che nel 2016 costrinse alle dimissioni l'allora premier Matteo Renzi ma anche alla convinzione che la strategia migliore sia quella di non polarizzare il voto. Non a caso il centrodestra si limiterà a raccogliere le firme di deputati e senatori, ma non dei cittadini come faranno invece i sostenitori del "no" per preparare la mobilitazione in vista del voto. Il ragionamento fatto ai piani alti di Palazzo Chigi e via della Scrofa è semplice. E parte da due punti fermi. Il primo è che nell'ultimo anno i sondaggi registrano un certo favore degli italiani verso un'eventuale riforma della giustizia e il secondo è che i referendum confermativi non hanno quorum. E accendere lo scontro significherebbe invitare alle urne tutti colori che non votano il merito della riforma ma contro il governo.
Così, tra le file della maggioranza solo Forza Italia costituirà un comitato di partito - incarico affidato da Antonio Tajani al deputato Costa e al senatore Pierantonio Zanettin - con tanto di presidente (ancora da individuare) e una vera e propria struttura composta dai coordinatori regionali azzurri. La conferma che il partito fondato da Silvio Berlusconi continuerà a fare della separazione delle carriere una battaglia identitaria. Fratelli d'Italia e Lega, invece, si appoggeranno a comitati d'area ma non composti da esponenti di partito.
Il che, ovviamente, non significa che Meloni non intenda rivendicare la riforma e metterci la faccia. Non è un caso che i toni usati ieri dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano siano stati piuttosto fermi. "Questa riforma - spiega ai microfoni di Cinque minuti su Rai1 - non è la bacchetta magica, ma certamente introduce degli elementi che fanno prevalere il merito sull'appartenenza correntizia. Troppe decisioni della sezione disciplinare del Csm derivano dal fatto che il mio giudice disciplinare è colui che io ho concorso a eleggere sulla base dei criteri correntizi e la riforma corregge questa struttura". "La separazione delle carriere - aggiunge - è già di fatto una realtà con la riforma Cartabia. Se vogliamo essere coerenti, a carriere separate corrispondono Csm separati". Infine l'affondo.
Le opposizioni accusano Meloni di volere i pieni poteri? "I pieni poteri - risponde Mantovano - sono di chi per via giudiziaria blocca la politica dell'immigrazione impedendo le espulsioni o di chi blocca la politica industriale fermando gli impianti, per esempio quelli dell'ex Ilva con un sequestro di cui non si sa niente da mesi. I pieni poteri sono di chi a fronte di 262 persone denunciate per i disordini di qualche settimana fa nel centro di Roma non dà nessun seguito di indagine e rilascia immediatamente in libertà gli unici due arrestati".