Meteo e valanghe: in montagna sono un rischio con cui convivere

Tragedie ineluttabili: ad alta quota un dettaglio può voler dire vita o morte

Meteo e valanghe: in montagna sono un rischio con cui convivere
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In ogni spedizione himalayana c'è un momento in cui finisce la competenza e comincia la casualità. Non si tratta di errori, non questa volta: i morti sul Panbari e sullo Yalung Ri non ci raccontano delle imprudenze, ma dei limiti tecnici oltre i quali nessuna preparazione serve più.

Sul Panbari Himal, un seimila a nord del Manaslu che è stato salito per la prima volta nel 2006, il campo uno era stato piazzato a circa cinquemila metri in un sito regolare: pendenza sotto i 25 gradi, terreno riparato, nessun fronte seraccato (ovvero molto esposta a slavine di ghiaccio e sassi). Il capo spedizione, rimasto al campo base per un infortunio, era in contatto radio costante con gli uomini in quota, e le previsioni satellitari (da Mountain Forecast e Meteo Exploration) prevedevano un peggioramento delle condizioni meteorologiche ben due giorni più tardi: venti moderati e possibili nevicate.

Purtroppo però l'aria umida dal Golfo del Bengala si è mossa in anticipo come nessun modello previsionale poteva intercettare, un piccolo scarto di pressione che, da quelle parti, e sopra i cinquemila metri, può tradursi rapidamente in nessuna via di fuga. La meteorologia perfetta ancora non esiste, certo non lì.

Lo Yalung Ri, invece, è un seimila tecnicamente non difficile (traversata sul ghiacciaio senza arrampicata) e viene spesso scalato come allenamento, ma la valanga che ha travolto il campo base è partita da un accumulo secondario e ha ceduto per sovraccarico, forse per via del vento: una valanga di tipo denso, non scorrevole, una massa compatta che ha collassato come un muro; significa che la neve non fluisce, ma cade, non trascina, ma schiaccia, questo con un impatto che nessun "airbag da valanga" (sono degli zaini che peraltro andrebbero indossati all'istante) avrebbe potuto evitare, anche perché questi strumenti funzionano solo quando la massa nevosa è granulare e in moto, permettendo così all'alpinista di galleggiarvi in superficie.

Nemmeno la stagione era anomala: novembre rappresenta la finestra post-monsonica, la più stabile e limpida dell'anno, la stessa in cui Reinhold Messner nel 1980 salì in solitaria l'Everest dal versante tibetano (impresa mai ripetuta) e però ai tempi il meteo tenne, ora no.

Casualità. Fortuna. Non sono neanche delle vette propriamente minori, il Panbari e lo Yalung Ri: accessi complessi, isolamento logistico, molti ottomila "commerciali" sono meno pericolosi perché la quota è solo un numero: la difficoltà vera dipende da acclimatazione e terreno.

Ieri, tra l'altro, il "Corriere dell'Alto Adige" ha stravolto un'intervista a Reinhold Messner dove pure il celebre alpinista aveva premesso che "non posso rispondere a domande sulla dinamica dei fatti" anche se il titolo dell'intervista, poi, è stato "Il rispetto per la montagna è diminuito" con un sottotitolo che accennava: "Tragedia degli alpinisti in Nepal"; Messner aveva detto solo che "ho rinunciato alla metà delle mie ascese perché era troppo pericoloso, la natura non è calcolabile" che poi è il suo messaggio di sempre, sempre uguale a se stesso, il medesimo già espresso in decine di libri: la natura non si calcola, e rispettarla significa accettarne l'imprevedibilità. Ma al "Corriere" serviva un altro titolo.

L'incertezza meteorologica, dicevamo, da quelle parti non è una negligenza, ma una costante: le stazioni sono rare, i dati discontinui, è qualcosa che ricorda la meteorologia italiana degli anni Sessanta, con poche sonde, previsioni manuali e margini d'errore di mezza giornata. Da noi spesso significa pioggia invece di sole, a cinquemila metri significa morte invece di vita.

E sappiamo che affioreranno impulsi del genere "se la sono cercata", come se affrontare una montagna significasse cercare la morte e non convivere con la sua probabilità, e anche se il tasso di incidenti mortali, nelle spedizioni in Nepal, è inferiore a quello delle immersioni ricreative, del motociclismo sportivo, oppure del parapendio, ed è molto più basso di quello che patiamo durante un

viaggio in autostrada: ma nessuno scrive che chi guida o nuota o chi corre se la va a cercare. Però lo dicono a chi scala le montagne, anche a quelli bravi, forse perché gli alpinisti accettano i rischi invece di subirli.

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