"Mio papà era magico. E l'amore lo convinse a non togliersi la vita"

Vent'anni fa la morte dell'esploratore Ambrogio Fogar. La figlia Francesca: "Dopo l'incidente del '92 rinunciò al suicidio per noi"

"Mio papà era magico. E l'amore lo convinse a non togliersi la vita"
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Il 24 agosto 2005 moriva a Milano, all’età di 64 anni, Ambrogio Fogar. Sono trascorsi vent’anni esatti dalla scomparsa del grande esploratore, entrato di diritto nella storia della seconda metà del Novecento italiano. Il suo solitario giro del mondo in barca a vela fece epoca nel dicembre 1974, quando ritornò dopo oltre tredici mesi nel porto di Castiglione della Pescaia (in provincia di Grosseto) al termine di una lunghissima traversata controcorrente del globo terracqueo. Eterni furono i 74 giorni alla deriva in mezzo all’Atlantico dopo l’affondamento del suo “Surprise”: a fargli compagnia su una zattera c’era il suo amico Mauro Mancini, ma purtroppo quest’ultimo non riuscì a sopravvivere.

Fogar proseguì le sue avventure, tra spedizioni al Polo Nord, conduzione di programmi televisivi e gare di rally. E fu proprio durante un raid automobilistico “Parigi-Pechino”, nel settembre 1992, che Ambrogio subì un terribile che lo paralizzò per sempre dal collo in giù, senza tuttavia perdere l’enorme tenacia che lo aveva contraddistinto nel suo primo mezzo secolo di vita.

A due decenni di distanza dal suo decesso, che cosa è rimasto nel cuore della figlia primogenita, Francesca Fogar, ricordando la figura di suo padre?
“La prima parola che mi viene in mente di dire è ‘nostalgia’: qualcosa che hai visitato e che alberga nel tuo cuore, che è quotidiano e costante. Da un lato crea un sottile dispiacere, perché non puoi condividere più alcuni aspetti; dall’altro, però, è anche consolatoria in quanto, facendolo vivere, è allo stesso tempo un sostegno. E anche i miei figli riescono a percepire la sua presenza attraverso di me”.

E che cosa ha riscontrato nelle altre persone quando parlava di Ambrogio Fogar?
“Ci sono tantissime persone delle due generazioni passate – quella che ha vissuto il giro del mondo e quella che guardava il suo programma tv ‘Jonathan’ – che mi scrivono sui social o tramite lettere. Mentre ho notato che purtroppo i più giovani lo conoscono molto meno, probabilmente complice anche una scarsa costanza celebrativa, per esempio, attraverso una fiction sulle piattaforme web. Questo mi dispiace. Anche perché i ragazzi hanno sempre costituito il pubblico a cui lui puntava maggiormente, perché era quel gruppo di persone che potevano comprendere meglio il suo linguaggio, la follia delle sue scelte, il desiderio di portare a casa i classici sogni che fai quando sei meno maturo.

Io e mia sorella Rachele cerchiamo di tenere viva questa memoria, che ha ispirato tanto e a lungo molte persone, non tanto nel raggiungere un determinato obiettivo, ma quanto nel porre in atto il tentativo. Il suo impulso virtuoso ha sempre teso verso la spiritualità, l’immaterialità, l’anima”.

Francesca Fogar
Fermo immagine Rai


Secondo lei come mai, nonostante la grandiosità del personaggio, i rappresentanti della cinematografia non hanno pensato di scrivere un film o una serie su suo padre?
“Innanzitutto, si tratta di una storia talmente ricca e complessa che l’idea di una sceneggiatura potrebbe anche spaventare. Non è stato certamente il caso di Giovanni Veronesi che, anzi, è da tutta la vita che vuole girare un film su Ambrogio. Forse l’elemento che intimorisce di più sono i costi per via dei tanti luoghi dove ambientare le scene. Anche se, secondo me, non è un aspetto così proibitivo, stanti i mezzi tecnologici per aggirare queste problematiche. È probabile, inoltre, che alcune grandi piattaforme sono le prime a non essere davvero a conoscenza di questa storia e della cassa di risonanza che ha avuto negli scorsi decenni e, dunque, del potenziale che può sussistere viste anche le reazioni dei tanti giovani che hanno sempre voglia di saperne di più. Io, comunque, mi auguro di portare a compimento questo progetto. Se non altro aggiungere un altro tassello che faccia da ponte tra il passato e il presente, così da esaudire una delle ultime speranze di Fogar: ‘Non dimenticatemi’”.

Come è stato il vostro rapporto personale quando lei era piccola?
“È stato un papà innamorato di me: e questo amore mi è arrivato con una potenza enorme. Aveva conservato un lato molto “fanciullesco” come approccio alla vita: che non significava che fosse infantile, ma che possedeva una capacità di stupirsi sempre davanti al mondo senza farsi inglobare in uno schema predefinito. Per quanto non fosse presente in maniera costante, il tempo che mi dedicava era di altissima qualità: mi ha sdoganato la sua vita per intero, perché desiderava condividere la sua esistenza con la mia (e viceversa) con un modo mai preordinato. Era sempre una scoperta. Mi ricordo le domeniche insieme trascorse in maniera originale: il giro in mongolfiera, il lancio con il paracadute… mi trasmetteva perfettamente la sua visione del mondo. E questo lo rendeva magico”.

E quindi l’assenza ciclica di suo padre non le ha pesato più di tanto?
“Molti sostengono che Fogar sia stato egoista perché prendeva e partiva in giro per il mondo in continuazione. Sì, era anche vero: però lui partiva per poi tornare e per condividere i suoi viaggi. Tutti i suoi successi, le sue scalate, ma anche le sue sconfitte e le sue cadute, non sarebbero esistite se non ci fosse stata la possibilità di una condivisione. Questo era un punto di arrivo imprescindibile per Ambrogio: ritornava sempre in mezzo agli altri, alle persone che amava. Era questo che rendeva piena la sua ricerca e che dava senso alla sua persona”.

All’anagrafe si chiama Francesca Margherita: se non sbaglio, è stato il risultato di un disaccordo tra i suoi genitori.
“Per prenderli in giro, dicevo loro che avevano creato un principio divisorio in me fin dalla nascita. Però, per certi versi, il fatto che con la mamma mi sentissi più Francesca e con papà più Margherita un po’ comporta uno sdoppiamento. Io sono stata molto amata anche da mia madre, che poi è stata la figura che portava avanti con me un tempo di ritualità quotidiana, e che consentiva quella ‘straordinarietà’ di mio padre. Hanno rappresentato due ambiti diversi. Si separarono quando io avevo 11 anni e questa suddivisione si rivelerà ancora più marcata. Ma sono sempre stata convinta della necessità di possedere entrambe le caratteristiche: se non c’è l’ordinario, non esiste lo straordinario. E viceversa. Certamente le loro componenti antitetiche allenavano, allo stesso modo, parti diverse di me: quindi era bello sia essere Francesca sia essere Margherita”.

Libo su Ambrogio Fogar


L’amore tra lei e suo padre ebbe tuttavia una brusca frenata quando aveva 15 anni: qual è stato il motivo?
“Scoprii casualmente che stava per avere una figlia da un’altra donna. Fu un evento traumatico per me. La bugia nel non avere saputo per tempo una cosa che, ovviamente, mi avrebbe spostato da quella condizione di unicità di certo non fu bella. Non compresi subito, in realtà, che quel pensiero fosse ‘misero’ ed egoistico. E, col senno di poi, oggi posso assolutamente dire: per fortuna c’è Rachele. Anche perché questo fatto cedette completamente il passo pochi mesi più tardi al vero trauma, al capovolgimento di tutta la mia vita”.

Naturalmente si riferisce al tragico incidente di Fogar in rally, che lo costrinse a un immobilismo totale.
“Tutti noi che gli volevamo bene ci rendemmo conto in quel momento che su papà si appoggiavano molte persone: non solo quelle che avevano trovato in lui un faro ispirazionale, ma anche perché era una figura di riferimento della nostra famiglia. Per me fu uno tsunami, che arrivò in un periodo in cui il nostro rapporto era freddo e dove mi trovavo in quella piena fase adolescenziale dove ci si pone molte domande sui genitori. Durante i successivi tre anni mi sono spesso chiesta: dove mi aggrappo ora qua, in mezzo al mare? È stato un lavoro molto lungo e faticoso: dovevo cercare di rimanere a galla, di capire come nuotare, come respirare per conservare le energie. E, in più, dimensionare tutto questo a chi aveva subìto sulla propria pelle quella tragedia. Per certi versi, questa elaborazione è terminata poco tempo fa: le emozioni e i traumi si possono spostare, ma non vanno via se non li affronti e li attraversi”.

E come avete fatto a gestire una situazione così difficile e complessa per tredici anni?
“L’elemento che ci ha consolato come famiglia è stato capire che l’amore restava ed era il salvagente invisibile che ha continuato a sostenerci in tutto questo periodo finale della vita di Ambrogio. E là che ci siamo ritrovati: su quel terreno comune, su quel bisogno per il quale senti di condividere ancora una visione che poggia su delle radici antiche e che continua a guardare in un orizzonte comune, nonostante le bordate della vita. Ogni giorno, magari, pregavi che fosse il suo ultimo, ma ti maledicevi subito dopo averlo pensato, per accorgerti che, quando l’ultimo istante era arrivato, non ti sarebbero bastati altri cent’anni per continuare a trasmettere quel sentimento”.

Tra l’altro era stato Fogar stesso, subito dopo il dramma, a chiedere ai voi familiari di togliergli la vita: perché cambiò idea?
“Io, le sue due sorelle Maria Grazia e Rita, mia madre Maria Teresa e a sua volta Rachele, anche se era piccola, abbiamo creato un fronte compatto – senza neanche metterci d’accordo tra noi – contro la sua decisione di portarlo in un Paese dove veniva praticata l’eutanasia. Era una cosa che nessuno di noi poteva immaginare che potesse essere solo detta. Poi era ovvio che nessuno poteva limitare il suo desiderio, se era davvero quello che voleva. Ma almeno potevamo fargli capire in tutti i modi che, nonostante il suo corpo fosse passato dal veicolo dei sogni a una prigione, la mente, l’anima e il cuore, al contrario, erano rimasti immutati e sacri al nostro cuore tanto quanto prima. Volevo fargli sentire quanto lui fosse importante per me e che l’amore non era cambiato. Tutti siamo stati sulla stessa linea: e così Ambrogio, percependo questa dichiarazione di intenti così vera, cambiò idea. E ha dimostrato ancora una volta di essere generoso”.

Proprio negli ultimi mesi della sua vita, sembrò riaccendersi la speranza: gli organizzò un viaggio a Pechino per sottoporsi a un’importante operazione chirurgica. Come nacque la preparazione?
“Quella mi sembrava idealmente la prima volta in cui potevo portarlo in viaggio io, in un senso di reciprocità dopo le esperienze che ho vissuto grazie a papà. Io gli chiesi: ‘Quale percentuale di riuscita avresti bisogno perché si tenti questo intervento?’. Ambrogio rispose, quasi in modo incredulo e come se fosse l’atteggiamento più normale del mondo: ‘1%’. Quindi, a prescindere da quello che sarebbe stato il risultato finale, sentivo che dovevo quantomeno provarci: era il potere della scintilla che poteva creare un falò. Conobbi là un medico cinese, considerato un luminare delle cellule staminali, e volli fargli capire che il tempo era scarso e bisognava fare presto. Il dottore fu molto comprensivo e aprì uno slot temporale per ricoverare mio padre da lì a poche settimane. Ma purtroppo a quell’operazione non ci arrivò mai”.

Lei fece comunque in tempo a tornare in Italia e comunicare a Fogar questa notizia?
“Forse è stato proprio quello l’1% che io sono riuscita a esaudire, che equivaleva al 100% del risultato, nel cuore, a livello di restituzione di amore che io potevo dare: era una cosa piccolissima, ma ho impiegato tutto quello che avevo. E sapeva che era il massimo per lui. Mio padre ha aspettato che io gli dessi la notizia positiva e che quindi quel viaggio si sarebbe svolto al grido: ‘La Cina si avvicina’. Era infatti il ritorno nel luogo in cui gli era occorso l’incidente che lo aveva paralizzato: sarebbe tornato indietro per vedersi restituito quello che tredici anni prima gli aveva tolto. Non dimenticherò mai la sua gioia e la sua gratitudine”.

E quella fu l’ultima volta in cui vi vedeste?
“Nella notte del giorno successivo alla nostra conversazione Ambrogio partì per il suo ultimo viaggio. Non per la Cina, ma per un’altra destinazione, più grande e misteriosa. Forse sarà una sorta di auto-consolazione, ma ho sempre pensato che lui sia scomparso proprio nel momento più alto: dove la speranza era decollata nuovamente dopo tanti anni. Come se avesse scelto il vento giusto per alzarsi in volo insieme alla speranza”.

Nel frattempo, Francesca Fogar è diventata giornalista e autrice televisiva: le ha mai “pesato” avere questo cognome nel corso della carriera?
“L’influsso che ho ricevuto è stato sicuramente molto potente: del resto la strada che uno fa è caratterizzata dai passi che qualcuno ti permette di compiere. Posso dire che è stato ‘pesante’ più a livello intimo, perché ho avuto a che fare un termine di paragone molto alto: ed è una componente con cui mi sono misurata, anche non volendolo fare, perché avveniva attraverso lo sguardo e l’aspettativa tacita che la gente aveva su di me, soprattutto da ragazzina, quando mi stavo strutturando meglio. Tuttavia, se mettessi questo fattore sul piatto della bilancia in relazione a tutto il bene ricevuto e l’onore di avere avuto due genitori eccezionali, con un padre così amato e fuori dagli schemi, scoprirei che quest’ultimo è nettamente superiore all’onere del ‘peso’ del cognome. Posso dire soltanto grazie per l’amore che mi è stato dato”.

In conclusione: con quali parole si potrebbe descrivere Ambrogio?
“Lo definirei: ‘Un Uomo’, per citare Oriana Fallaci. E poi aggiungerei: ‘Un grande sognatore… che può trovarsi dentro ciascuno di noi’. Non voglio rinunciare infatti alla speranza che l’esempio di mio padre abbia germogliato anche in una persona – magari non nota alle cronache – la quale l’ha fatto diventare il proprio sogno. Ed è proprio in questo modo che Ambrogio Fogar continuerà a esistere”.

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