Non sempre i nemici si scelgono. Non c'è nessuno che voleva ritrovarsi con una guerra alla frontiera dell'Europa, durante una pandemia, con un equilibrio internazionale instabile e la Cina pronta a conquistare un'isola che da quaranta anni ha scelto la democrazia e la libertà e combatterà fino all'ultimo per non fare la fine di Hong Kong. Non c'era bisogno dei missili a Kiev. Non erano, e non sono, un male di stagione, non sono qualcosa di ineluttabile da segnare sul calendario della storia. La guerra, senza il coraggio di chiamarla guerra, è stata una scommessa di Vladimir Putin. Qualcuno dice che lo ha fatto perché si sentiva minacciato o per soccorrere la minoranza russa in Ucraina. Colpa della Nato, quindi, e dell'ingordigia di Washington che non ha saputo dare una giusta risposta alla vocazione imperiale della Russia. Non ne hanno assecondato i sogni. Ora è vero che gli Stati Uniti si muovono in politica estera con scarsa sensibilità, come una ex colonia che non è mai riuscita a fare i conti con la sua straripante grandezza, dovremmo però anche chiederci se Putin abbia mai avuto davvero la voglia di essere un alleato dell'Occidente. Non un vassallo, ma un alleato di cui fidarsi, La stessa domanda, per inciso, andrebbe fatta a Erdogan. È chiaro che avere una Russia più europea sarebbe stato bello, peccato che tutto questo non abbia mai fatto parte delle aspirazioni di Putin. L'ex funzionario del Kgb ha mostrato sempre profondo disprezzo, con parole chiare, per tutto quel mondo che una volta era al di là della cortina di ferro. Lo considera fragile e decadente, come un'anomalia che in fondo non copre neppure un secolo della storia umana. Putin ritiene che le masse vadano governate dall'alto e che gli individui abbiano solo i diritti che lo Stato più o meno magnanimo sia disposto a concedergli. Questa è la sua formazione culturale e le elezioni sono solo la rappresentazione di chi ha in mano le armi vere del potere. Il voto è una finzione. Lo disse senza problemi quando definì il liberalismo democratico un'idea obsoleta. Il ventunesimo secolo, per lui, ha rispolverato forme di governo più adatte alla globalizzazione. È quella che i politologi chiamano democrazia autoritaria. Si dirà che queste sono solo inutili chiacchiere da salotto e che alla fine quello che conta sono gli affari.
I soldi e il potere, certo, muovono la storia, ma attenzione a trascurare le idee. Non è facile allearsi con Putin anche perché non ha mai parlato la stessa lingua dell'Occidente. Non ha mai riconosciuto l'architrave di una civiltà che è ancora più fondamentale in un mondo improvvisamente più piccolo e veloce. Per Putin, come per Xi Jinping, i diritti dell'umanità non sono affatto universali. Non vengono prima degli Stati e delle leggi. Non appartengono a tutti. Sono il prodotto di una sola visione della vita e che altre culture considerano aliena, straniera. Ci può stare. Ognuno ha la sua storia. Il problema però si pone quando gli altri vogliono restaurare la loro visione in terre che hanno fatto una scelta liberale e democratica.
Qui che si fa? L'Occidente deve chiudere un occhio sul destino di chi ha scelto i valori «universali»?L'unico modo per tenersi buono Putin era abbandonare Kiev e dire a altri Paesi democratici di inginocchiarsi. È vendere Ucrania e Taiwan per quieto vivere. Non è amicizia verso Vladimir. È rinnegare se stessi.
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