
La Cina non è invincibile. E le terre rare probabilmente non basteranno a nascondere le crepe del suo modello.
La mossa di Pechino di imporre nuove restrizioni all'export di terre rare e minerali critici essenziali per la produzione di tecnologie e sistemi di difesa americani ha scatenato l'ennesimo allarme nei salotti occidentali. Il gioco sembra essere questo, una sorta di contro-sanzione strategica: se gli Stati Uniti possono controllare il flusso globale dei chip grazie alla loro proprietà intellettuale, la Cina può ora fare lo stesso con i materiali critici. E con il 70% dell'estrazione, il 90% della raffinazione e il 93% della produzione di magneti mondiali, Pechino mostra i muscoli. Titoli e commentatori parlano di "mossa strategica", di "supremazia cinese sulle materie prime", come se il Dragone fosse una macchina perfetta capace di dominare a piacimento le catene globali. Ma questa narrativa è una favola.
La realtà è che l'economia cinese è disperatamente dipendente dalle esportazioni, e che i dazi americani stanno infliggendo un colpo durissimo alle sue entrate industriali. Basta guardare i dati doganali: le esportazioni dirette verso gli Stati Uniti sono crollate, mentre quelle verso il resto del mondo sono aumentate di pari passo. In apparenza, l'export totale non cambia. Ma in realtà, Pechino sta vendendo la stessa merce a margini più bassi, spostandola verso mercati secondari o triangolando attraverso Paesi terzi per aggirare le barriere.
È il classico trucco contabile: il volume resta, ma il valore evapora. Il fenomeno di trade diversion e transshipment serve solo a mascherare il dolore del settore manifatturiero cinese, schiacciato tra sconti forzati, costi logistici crescenti e un sistema del credito che continua a pompare liquidità in aziende zombie pur di non farle fallire. In questo contesto, la decisione di colpire gli Stati Uniti con le restrizioni sulle terre rare non è un segno di forza, ma un atto di debolezza. È la reazione di un gigante industriale che sta perdendo sangue e che tenta di usare la leva geopolitica per guadagnare tempo. Dietro la retorica muscolare, la Cina oggi è un Paese che non può permettersi un vero scontro commerciale prolungato. Il rallentamento strutturale del mercato immobiliare, la fuga di capitali, la disoccupazione giovanile e la stagnazione dei consumi interni sono problemi che non si risolvono con un decreto del Ministero del Commercio. E mentre il partito insiste sul mito dell'autosufficienza industriale, le fabbriche di Shenzhen e Guangzhou faticano a mantenere i margini operativi, costrette a vendere in perdita pur di mantenere le linee attive.
È in questo scenario che va letta la stretta sulle terre rare: una mossa disperata per costringere Washington a negoziare. Pechino sa di avere ancora leve ma anche che queste leve si stanno logorando. Non è un caso che l'export di terre rare rappresenti oggi una delle ultime carte strategiche rimaste a Xi Jinping in un contesto di crescente isolamento economico. Ecco perché la risposta occidentale non può limitarsi a indignarsi.
Serve una vera politica industriale del blocco atlantico, capace di ricostruire una filiera dei metalli strategici dal minerale alla metallurgia su base nazionale e alleata. Perché l'unica cosa più pericolosa di una Cina aggressiva è una Cina fragile che usa la leva delle materie prime per nascondere il proprio declino industriale.*Fondatore T-Commodity