Quando i "modelli" finiscono a processo. I giudici hanno preso il posto degli elettori

Milano come Genova, due sistemi presi di mira perché creano ricchezza. E la politica retrocede

Quando i "modelli" finiscono a processo. I giudici hanno preso il posto degli elettori

La nuova frontiera della giustizia italiana non sembra più consistere nel perseguire i reati, ma nel giudicare i modelli. In gergo tecnico si chiamano "sistemi" e già questa definizione lascia intuire un'aura di sospetto.

È accaduto con il cosiddetto "modello Liguria", reo di aver cercato di trasformare una Regione storicamente sonnolenta in un laboratorio di iniziativa economica, attrattività e libertà d'impresa. Chi scrive ne conosce le difficoltà, le critiche, i limiti, e ha pagato un prezzo personale per quella visione. Ma ne rivendica con orgoglio i risultati.

Oggi è il turno del "modello Milano". Un'inchiesta che conosco solo per sommi capi, ma di cui intuisco i sottintesi. Ancora una volta, al centro non c'è un fatto, ma uno stile. Non un illecito, ma un'estetica del potere che pare infastidire: quella di una metropoli che, invece di rimanere sobria e contrita, è diventata vetrina internazionale per capitali stranieri, calciatori, influencer, investitori. E proprio questa narrazione estetico-morale sembra orientare anche il racconto giudiziario, dove le categorie giuridiche sembrano sostituite da giudizi etici e da un certo disprezzo per il successo.

Ma se guardiamo alla realtà ai dati, ai numeri Milano è oggi una città migliore rispetto a dieci anni fa. Compete in urbanistica con le capitali globali, genera da sola un quarto della ricchezza nazionale, offre servizi e infrastrutture ai vertici delle classifiche europee. Non è perfetta, certo. Ma chi rimpiange davvero via Melchiorre Gioia infestata di degrado, rispetto ai grattacieli e al Bosco Verticale? Chi sceglierebbe i capannoni abbandonati della vecchia fiera al posto del quartiere City Life?

Eppure, ciò che dovrebbe essere giudicato e premiato o corretto dagli elettori, finisce per essere valutato nei tribunali. Dove, sempre più spesso, la discrezionalità amministrativa diventa sospetto, l'intuizione politica diventa abuso, e l'interesse pubblico si dissolve in quello giudiziario.

Sarebbe facile, e lo si fa spesso, prendersela con una magistratura che esonda dal suo ruolo e supplisce a una politica inerte. Ma il problema più profondo non è in chi esercita troppo potere, bensì in chi ha smesso di esercitarlo. In una classe politica afona, o peggio, connivente. Una politica che ha rinunciato a difendere il proprio spazio, consegnandolo per paura o per calcolo a chi oggi lo occupa.

Esemplare è l'ambiguità di una sinistra che, dopo aver amministrato Milano per oltre un decennio, oscilla tra l'imbarazzo e il silenzio, incapace di difendere i risultati del proprio operato, timorosa di apparire complice di ciò che invece è frutto della propria visione amministrativa.

In questo vuoto di rappresentanza, si fa strada un modello distorto in cui è la magistratura a decidere l'altezza di un palazzo, la durata di una concessione, la retribuzione di un dirigente. Temi che, per quanto complessi, dovrebbero essere oggetto di scelte politiche, soggette al giudizio degli elettori, non all'intervento dei tribunali. Ma leggi ambigue, pensate per compiacere un'opinione pubblica giustizialista, hanno trasformato ogni scelta politica in un possibile reato, ogni discrezionalità in un sospetto etico, ogni errore in un'indagine.

Ne è prova la retorica che emerge anche dagli atti della nuova inchiesta milanese, dove la naturale spinta del mercato, quella "cura del proprio interesse" che per Adam Smith è motore del benessere collettivo, viene descritta come "avidità". E l'avidità, si sa, è un peccato.

Eppure è proprio da lì che nasce il dinamismo delle città, delle economie, delle società. La politica dovrebbe saperla riconoscere, regolare, incanalare. Non reprimerla, ma governarla. È in questo incontro tra la forza propulsiva dell'interesse e la guida dell'interesse pubblico che nasce il progresso. È così che Milano ha trasformato se stessa.

È ovvio che vi possano essere, come sempre, episodi di malaffare. Ma elevarli a paradigma sistemico, farne la prova del fallimento di un modello, significa uccidere la politica e investire la magistratura di un ruolo che non le compete. Significa trasformare la responsabilità individuale in colpa collettiva, e il dibattito democratico in sentenza etica.

Finché sarà un magistrato e non un amministratore eletto a decidere se un'idea di città è lecita o meno, il principio cardine della democrazia resterà sospeso. Finché chi sbaglia una nomina, un piano urbanistico, una strategia di sviluppo potrà finire sotto processo invece che perdere semplicemente le elezioni, allora continueremo a vivere in una democrazia sotto tutela.

Non illudiamoci: nessuna riforma della giustizia potrà cambiare davvero le cose se non sarà accompagnata da una riforma del coraggio politico. È vero: senza la riforma Nordio, oggi a Milano forse ci sarebbero già imprenditori e amministratori agli arresti. Ma è altrettanto vero che senza una classe politica capace di difendere il proprio ruolo, anche la migliore riforma sarà vana.

Bisogna avere il

coraggio di tornare a decidere. Di assumersi la responsabilità del potere. E di accettare che, in democrazia, il solo giudizio che conta su un'idea, su un piano, su una visione è quello del popolo. Non quello di una procura.

Commenti
Pubblica un commento
Non sono consentiti commenti che contengano termini violenti, discriminatori o che contravvengano alle elementari regole di netiquette. Qui le norme di comportamento per esteso.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica