Renzi si sente al capolinea: "Si andrà a votare nel 2017"

I suoi fedelissimi sentono aria di assedio: pesano il caso Guidi e il rischio flop sulle trivelle. Verdini: "Matteo, ti faranno fuori. Serve il Partito della nazione"

Renzi si sente al capolinea: "Si andrà a votare nel 2017"

Grida nel buio. «Caro Matteo o ti muovi, o rischi di andare a sbattere di brutto...»: quelle parole il premier le ha sentite pronunciare giorni fa da Denis Verdini, ultimo salvagente del governo, uno che gli vuole bene non fosse altro perché ha puntato tutto su di lui. Un grido di allarme che testimonia la temperatura al calor bianco in cui si è svolta l'ultima riunione della compagnia verdiniana, divisa tra chi consiglia prudenza e chi, invece, vuole entrare subito al governo, convinto che non ci sarà un'altra occasione perché presto non ci sarà più né Renzi, né il governo. «Qui è già partita l'operazione per farti fuori», è stato il ragionamento brusco fatto da Verdini al suo pupillo, con lo stesso affetto che provava un tempo per il Cav: «Se sarà portata a termine ora o tra sei mesi non lo so. Per cui devi decidere se vuoi fare il Partito della Nazione oppure no. Ma se non lo fai ricorda che finirà male. Tu non sei come il Cav che era il dominus di un Pdl al 39%. Tu hai un Pd che è al 31% e non lo controlli per un terzo. Anzi, quel terzo vuole buttarti giù».

Grida nel buio. Seduto pensieroso sullo scranno che occupa al Senato, Nicola Latorre, ex-eminenza dalemiana approdata alla corte di re Matteo, disserta sul cupio dissolvi che lo circonda. «Siamo nella m... - sospira, reduce da una riunione con quelli che definisce i comunicatori del governo - e dal cono d'ombra sarà difficile uscire. Ad esempio, sul referendum sulle trivelle o Renzi se ne va all'estero per una decina di giorni per abbassare la temperatura e l'attenzione che ha creato su quella scadenza, o dobbiamo ingaggiare una vera battaglia per l'astensione. Delle due, l'una. Stesso discorso sulla magistratura: stiamo ripetendo il copione di Berlusconi. Sarebbe meglio usare un linguaggio diverso e magari fare una cosa, una cosa sola ma seria, come cambiare le regole di elezione del Csm. L'importante è darsi una strategia, sapendo che se Renzi perde il referendum sulla riforma Costituzionale è finito».

Grida, appunto, che tentano di squarciare le tenebre che hanno avvolto nel giro di una settimana il premier. I peggiori incubi di Renzi si sono materializzati. Non è ancora finito lo scandalo di Banca Etruria ed è venuta fuori la storia dell'emendamento in favore della Total per il giacimento di Tempa Rossa. Nel peggiore dei modi: un ministro, ora ex, che dà del «pezzo di m...» (espressione in voga di questi giorni) al suo «vice», che parla di «clan», «combriccole», «quartierini», di «dossier» contro ministri e di faide tra ministri. Una narrazione, per usare il linguaggio del premier, che trasforma quello che nell'immaginario renziano è il miglior dei governi possibili, nel peggior bar di Caracas (per fare il verso ad un vecchio spot pubblicitario). «Queste intercettazioni - osserva un piddino compassato come Walter Tocci - fanno impallidire quelle che riguardavano le storie di Berlusconi». E in questi frangenti drammatici il premier ha assunto anche un atteggiamento maldestro: «Quando ha tirato fuori il petto dicendo che l'emendamento era suo - ironizza un altro piddino, Felice Casson - si è capito che nascondeva qualcosa di grosso». Uno tsunami che ha fatto venire meno la fiducia nelle doti demiurgiche del capo. «Se vuole vincere il referendum costituzionale - spiega il paziente sottosegretario Luciano Pizzetti, renziano doc - Matteo deve evitare di personalizzarlo, di metterci la faccia».

Insomma, nel volgere di qualche settimana è cambiata la vita per Renzi. Certo il personaggio se lo aspettava, anzi lo temeva. «Si sta mettendo insieme una folta compagnia che ha nel mirino il sottoscritto», diceva qualche settimana fa. E l'accusa di Maria Elena Boschi di questi giorni («abbiamo contro i poteri forti») contiene qualche verità: i nemici in Europa non si contano più; i rapporti con Draghi sono al livello più basso; gli imprenditori si stanno disinnamorando; e una parte dei salotti buoni, quelli di Bazoli per intenderci, non lo sopportano più. E come sempre avviene, quando il leader del momento si indebolisce e viene isolato, l'assedio o, per usare l'ironia, il «potere regolatore» della magistratura, torna a farsi sentire. Una storia già vista, che Renzi sta affrontando nel modo peggiore, tentando il solito approccio aum, aum. «Da una parte spara contro le procure - osserva Riccardo Mazzoni, mente lucida dei verdiniani - dall'altra le accarezza con la demagogia, rivendicando il fatto che il suo governo ha allungato le prescrizioni...

È prigioniero del suo schema e di un Pd che una vera riforma della giustizia non la farà mai».

Appunto, il premier è bloccato, paralizzato. È ormai solo l'immagine sbiadita del personaggio spacca tutto di qualche mese fa. Nell'ultima direzione ha dovuto subire anche il giudizio duro di Cuperlo, che non è certo un cuor di leone: «Non hai la statura del leader». La verità è che se lo stanno cucinando. Gente che non si è mai sopportata nel partito è tornata a parlarsi: governatori come Rossi e Emiliano, Bersani e D'Alema. Il processo di logoramento è cadenzato nel tempo ed è esterno al Pd, visto che all'interno gli oppositori non toccano palla: prima il referendum sulle trivelle; poi le amministrative. «Se perde Milano - azzarda il consigliere di Bersani, Gotor - oltre a Roma, Napoli e Torino, come farà ad andare avanti?». E poi in autunno ci sarà il referendum costituzionale. «Cosa faremo? Lo decideremo - pensa a voce alta Migliavacca, braccio destro di Bersani - dopo le Amministrative».

Come in una corrida: prima le banderillas, poi la spada per abbattere il toro. Un film che si ripete, che dentro il Palazzo tutti conoscono a memoria. Tant'è che tutti hanno capito che nel giro di un anno la legislatura volgerà al termine. «È l'istinto: si voterà nella primavera del 2017», ironizza Gotor. «Si voterà il prossimo anno», ammette a malincuore da buon verdiniano Mazzoni. I conti son presto fatti. Se Renzi vince il referendum, preferirà incassare subito il risultato, anche per non essere obbligato a dover varare una manovra «pesante» prima delle elezioni politiche. Se lo perderà, tenterà la strada delle urne per normalizzare con nuovi gruppi parlamentari un partito che ha il riflesso automatico del regicidio. «Non si facciano illusioni - sostiene il ministro della Giustizia, Andrea Orlando - se perdiamo il referendum si va alle elezioni». Una minaccia e anche una via d'uscita. Anche perché c'è sempre chi sotto sotto spera nel solito governo tecnico, argomentando che Mattarella senza una nuova legge elettorale non andrà a votare. «Sarebbe una iattura», confida Giulio Tremonti. Una simile logica, infatti, avrebbe un corollario: le percentuali dei grillini andrebbero alle stelle. Per cui anche un Parlamento recalcitrante e amante, per usare le parole sferzanti del premier, della poltrona si sta preparando all'inevitabile lavacro.

In questa atmosfera anche la

mission impossible di rimettere insieme il centrodestra potrebbe avere nei prossimi giorni un esito positivo. Di necessità si fa virtù, specie se si intuisce che il proprio avversario, invincibile fino a ieri, è al tramonto.

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