Tecnici, prefetti, supercommissari: domina la Renzicrazia dei non eletti

Da Sala a Gabrielli e Cantone, il premier punta su uomini mai votati dai cittadini

Tecnici, prefetti, supercommissari: domina la Renzicrazia dei non eletti

Roma - La democrazia? In Europa è quell'apostrofo rosa tra le parole Franco-forte. Bce e Germania, non si scappa. Ma non bisogna essere modesti, essendo il fenomeno della sparizione (Berlusconi, Grillo e altri parlano di «sospensione») della democrazia di portata mondiale.

Eppure l'Italia ne rappresenta un laboratorio speciale, una cucina a vista nella quale il sofisticato soufflé, appannaggio di palati satolli e capricciosi, è da tempo fuori menu. Ormai desueto il concetto che il popolo possa riunirsi di tanto in tanto per inserire strane schede compilate in scatoloni di cartone.

Un tempo si chiamavano, se vuoi, elezioni. Oggi sono quel pericoloso spauracchio utilizzato da Matteo Renzi, premier per scelta di Dio (Napolitano? Merkel?) e volontà (implicita) della Nazione, per mettere in riga i ribelli del Pd. «Se non mangiate la sbobba riformista vi porto alle urne!», l'ignobile minaccia. Tutto, purché non si finisca in quel postaccio dal nome funerario. Urna, basta la parola.

La Renzicrazia oggi sta dilagando in pianta stabile. Non bastasse lui, il Mai-Eletto, e i suoi ministri presuntivamente «superesperti», tipo il Padoan all'Economia (nonostante la realtà ne abbia dimostrato capacità men che modeste), ci ritroviamo di fronte alla riapparizione sui Colli fatali, duemila anni dopo, non dell'Impero bensì dell'istituto della Dittatura nell'accezione romana. Purtroppo non durerà i classici sei mesi.

Complice del piano renziano, l'assoluta inadeguatezza dei quadri del Partito Definitivo: al punto - si dice - che ora il segretario, dopo i vecchi arnesi, abbia cominciato a rottamare anche i giovani (più o meno turchi) del Pd. Come? In maniera facilitata: basta concedere loro qualche poltrona e aspettare di vedere l'effetto che fa. Campione del genere il presidente pidino Orfini, ugualmente pasticcione in ogni sua attività, e ormai cencio travolto dall'affare Marino. Così il reuccio di Palazzo Chigi è già alla fase due: fatti fuori, uno dopo l'altro, gli aspiranti suicidi (nel Pd nessuno si candida più a nulla, temono tutti il tonfo), vige una tecnocrazia che si avvale della presunta neutralità per guadagnarsi un minimo di credibilità.

Si cominciò con Milano, travolta dal malaffare Expo. L'allora premier Letta pescò dal mucchio il manager Giuseppe Sala, bocconiano nato in Pirelli e cresciuto in Telecom. Ne fece uno dei baluardi organizzativi, cui venne poi affiancato, dal punto di vista legalitario, il prefetto Francesco Paolo Tronca. Renzi ne ha fatto ora due alfieri della Renzicrazia (senza peraltro che i due si siano espressi in merito, basta loro occhieggiare a Palazzo Chigi, come d'altronde sono tenuti a fare). Il primo è votato a diventare candidato sindaco di Milano, il secondo Console romano con pieni poteri. Accanto a Tronca, un altro prefetto e superpoliziotto, Franco Gabrielli, che si occupa del Giubileo. Anche per la candidatura al Campidoglio, non dovesse funzionare mediaticamente Tronca, ci sarà pur sempre un Sabella qualsiasi da designare col tocco della spada sulla spalla.

Questo per non parlare del dictator della legalità, Raffaele Cantone, immaginetta multiuso.

Competenza o mancanza di fiducia nei politici di casa propria? Basti sapere che Renzi conosce bene i suoi polli. Manzoni avrebbe scritto: capponi.

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