Una marcia compatta per tre «Sì»: al referendum chiave sulla separazione delle carriere dei giudici e ai due quesiti «minori» su Csm e consigli giudiziari. Per il centrodestra quella che si apre di fatto oggi (e a breve anche ufficialmente, con la fissazione della data del voto) è una sorta di campagna elettorale su temi che lo vedono da tempo accomunato.
Ma sugli altri due quesiti approvati nei giorni scorsi dalla Corte Costituzionale lo schieramento moderato è diviso al suo interno, dopo la decisione di Fratelli d'Italia di votare «No» all'abrogazione della legge Severino - che prevede l'incandidabilità e la decadenza dei politici condannati - e alle modifiche del codice di procedura penale che consentono il carcere preventivo.
La scelta di Giorgia Meloni era per alcuni aspetti nell'aria, Fdi aveva fatto capire di guardare ai quesiti su legge Severino e custodia cautelare più tiepidamente che al resto del pacchetto ma fino al pronunciamento della Consulta la decisione non era stata esplicitata in modo così netto. Ma già quando sei Regioni governate dal centrodestra votarono la richiesta di referendum, i consiglierei di Fdi approvarono senza obiezioni la prima parte del pacchetto ma si astennero sul resto. Ora la frattura è chiara. E pone il centrodestra di fronte a una battaglia che, almeno sui due ultimi quesiti, si presenta aperta a ogni risultato: di fatto a difesa della legge Severino si presenterà uno schieramento composito che andrà dal Pd ai 5 Stelle a Fratelli d'Italia. Idem per il referendum sulla custodia cautelare, che punta a limitare sensibilmente i casi in cui il pubblico ministero può ottenere la custodia cautelare degli indagati.
Sono, come si vede, i più «garantisti» tra i cinque quesiti sulla giustizia ritenuti ammissibili dalla Consulta. E in qualche modo è comprensibile che i tre partiti della coalizione moderata abbiano sensibilità diverse. Forza Italia è da tempo il partito più esposto alle offensive delle Procure, ha potuto provare sulla sua pelle l'impatto delle manette facili, ha visto suoi esponenti (a partire da Silvio Berlusconi) ed amministratori sospesi in base alla «Severino»; la Lega negli ultimi tempi ha dovuto provare anch'essa le asprezze delle indagini penali, dai 49 milioni, al Russiagate, all'arresto dei suoi revisori contabili. Il partito della Meloni ha avuto esperienze meno dirette. E anche questo aiuta a spiegare i suo distinguo di oggi.
Ma al fondo la vera preoccupazione di Fdi è che la proposta di ridurre i poteri dei pm appaia in contraddizione con le battaglie securitarie che sono un pezzo importante del Dna del partito. Dopo anni passati a polemizzare contro le scarcerazioni facili di delinquenti grandi e piccoli, a Giorgia Meloni e ai suoi uomini sul territorio l'idea che un domani qualche malvivente possa evitare il carcere grazie a un referendum targato Fdi risulta inaccettabile.
Analogo il discorso sulla «legge Severino»: qui non si discute di criminalità comune ma dell'impatto della giustizia sulla politica, ma anche qui è prevalsa in Fdi la convinzione che un «Sì» al referendum potesse nuocere all'immagine di severità del partito. Ma che la norma draconiana varata dal governo Monti abbia bisogno di essere rivista, in particolare nelle parti che fanno scattare la decadenza anche con una sentenza di primo grado, anche gli ex-An lo ammettono: anche se nelle loro dichiarazioni più recenti indicano come strada maestra quella di una riforma per via parlamentare. Di fronte ai distinguo di Fdi, il leader leghista Matteo Salvini punta a sdrammatizzare: «Se su due quesiti la pensiamo in maniera diversa, evviva la libertà».
Però poi avverte che «il centrodestra compatto ottiene risultati, diviso no». Il vero timore è che di fronte alla complessità della materia (il quesito sulla separazione delle carriere è di 1.068 parole) non tutti gli elettori riescano a distinguere. E che un «No» traini tutti gli altri.
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