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Quel socialista frugale e perbene

Esponente del modello lombardo, fu lontano dallo stereotipo dei craxiani rampanti

Quel socialista frugale e perbene

Ugo Intini, morto ieri a Milano all'età di 82 anni dopo una lunga malattia, è stato innanzitutto un grande giornalista e un eccellente scrittore.

L'ho conosciuto nella mia Liguria. Io avevo meno di vent'anni, ero profondamente anti craxiano - militavo allora nella sinistra socialista e lui era il leader che, da Roma, era stato inviato a Genova per sedare le riottose correnti «riformiste» (così si chiamavano i gruppi che si rifacevano al segretario del partito). Ugo, in realtà, non era per nulla romano, ma un milanesissimo prodotto del socialismo lombardo; quello assai brillante nella comunicazione - Guido Mazzali, l'inventore dello slogan «Chi beve birra campa cent'anni» era uno storico dirigente socialista e immerso in quel profondo credo riformatore che aveva contribuito a far crescere Milano traghettandola dai suoi anni di piombo alle luci degli anni ottanta. Mi conobbe da «dissidente» e fu laicissimo e accogliente. Con curiosità. Anch'io, poi, diventerò riformista grazie a tre persone: il senatore Delio Meoli («sigaro tonante»), Tonino Bettanini (un anomalo e illuminato segretario del Psi genovese) e Ugo, appunto.

Posso permettermi di dirlo a trent'anni di distanza avendo poi trascorso, simbioticamente, diverso tempo accanto a Craxi: non nutrivo, allora, un amore smodato per molti craxiani. In Liguria avevano agito ai confini della spericolatezza per «eliminare» politicamente mio padre (che non apparteneva alla loro corrente); papà, un professore universitario di ingegneria navale prestato alla politica, si era prodigato anni per tenere a galla la sanità ligure e farla uscire dalle secche (dove altri compagni l'avevano portata). Era definito dalla stampa un «socialista per bene» (orrenda sintesi anticipatoria della carneficina che sarebbe da lì a poco sopraggiunta). Vivere su una persona che ami quella prepotenza che incontrai può produrre, tra tante, due reazioni: il rigetto totale verso il mondo che l'ha prodotta oppure una sorta d'impermeabilizzazione emotiva accompagnata da un desiderio di rivalsa. Fortunatamente scattò la seconda.

Ugo non c'entrava proprio nulla con quell'immagine dei socialisti rampanti proiettata nell'immaginario dai media. E nemmeno Craxi (ma qui la parentesi sarebbe troppo ampia).

Intanto, Intini non era stato paracadutato, nominalmente, nel collegio per poi scomparire, ma continuava a passarci almeno tre giorni a settimana (sfido a trovare, oggi, nel panorama contemporaneo una simile presenza degli eletti sul territorio). Aveva modi modestissimi. Negli anni ruggenti della moda e del consumismo viveva di una divisa fatta di alcune cravatte, sempre le stesse, e scarpe portate all'usura. Era lucidamente anti-comunista con argomenti morbidamente ferrei, espressi con una voce più metallica che flautata, che non aiutava l'interlocutore a empatizzare con lui.

La sua capacità di costruire slogan gli nasceva dal suo essere giornalista e fu lui, insieme a Giuliano Amato (allora vice segretario del Psi), a farmi da mentore in quegli anni d'ingresso nella politica nazionale. Organizzò le prime campagne contro i «partiti irresponsabili». Si trattava di quelle testate giornalistiche, attrici della scena politica, che rivendicavano un ruolo di arbitrato e di critica senza dover pagare i costi della pratica del potere.

Provò ad accendere la luce sul «triangolo rosso» e la carneficina della guerra civile seguita al fascismo in terra emiliana (fu un precursore di quella rilettura che costerà tanto odio a Giampaolo Pansa). I socialisti, purtroppo, oltre che troppi freschi per il potere erano senza padroni e non potevano contare su una cultura millenaria della gestione del governo.

Intini è stato testimone di nozze del mio primo matrimonio, ma soprattutto la ragione per cui riuscii a interpretare tutta la stagione di Mani pulite con sfrontatezza: nel 1992, in quanto segretario dei giovani, avrei dovuto essere, candidato alla Camera come «esponente nazionale» del partito, ma Ugo, capolista, aveva già saturato quella quota. Per cui: niente elezioni, niente finanziamento illecito, nessun problema postumo. E sì, perché quando Craxi provò a spiegare in aula che tutta la politica «era colpevole» e nessuno fiatò non intendeva che dunque, per conseguenza, non ci fossero colpevoli: ma che lo erano tutti e basta.

Ci perdemmo durante Mani pulite. Artefici di questo allontanamento furono alcune intercettazioni di quella testa calda che ero; infatti, la trascrizione di diverse mie colorite considerazioni dedicate alle titubanze di alcuni dirigenti socialisti, in quel clima infame, vennero strillate sulle prime pagine dei quotidiani. In realtà ne stavo riflettendo al telefono - con Craxi - e non in pubblico perché capivo, già allora, che la condizione e la valutazione di un ventenne non erano interscambiabili con quella di un uomo maturo e del suo trascorso calato in quell'orribile contesto. Da quel momento smisi non solo di parlarne al telefono, ma anche solo di pensarlo.

Vista la deriva degli anni successivi credo, non per consolazione, che ci sarebbe oggi bisogno di qualche tonnellata di quella cultura e di quel modo di governare.

Converrebbe a tutti: alla sinistra, alla politica e, ciò che più conta, al Paese.

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