In aula, durante l'incidente probatorio sul delitto di Garlasco, è accaduta una cosa che dovrebbe far tremare vene e polsi a chiunque abbia a cuore non dico la giustizia, ma il buon senso. Sotto due unghie di Chiara Poggi, una della mano destra e una della sinistra, è stato trovato del Dna che non appartiene ad Alberto Stasi. Non uno, ma due reperti. Non un'ipotesi, non una suggestione, non un'indicazione ambigua. Un dato. E questo, in un processo che per anni è stato privo di prove, è una circostanza che ha un nome preciso: prova scriminante. Qui non siamo davanti a un dettaglio che "si aggiunge". Qui siamo davanti a ciò che, senza discussione alcuna, scagiona.
E invece no. Invece si è arrivati al paradosso grottesco e indegno: qualcuno ha chiesto che Stasi venisse allontanato dall'aula. Come se la sua sola presenza disturbasse il copione. Come se l'innocente fosse un intralcio. Come se la verità desse fastidio. Se c'era una persona che aveva diritto di essere lì, era proprio lui. Perché la giustizia non è un rito voodoo in cui si allontana l'impuro, ma un confronto pubblico con i fatti. E quando i fatti finalmente emergono, non li si può cacciare fuori dall'aula.
Io sono furente. E non da ieri. Questo processo è stato fin dall'inizio un rovesciamento della realtà. Non solo illogico: diabolico. In senso etimologico. Dia-ballo, da cui diavolo in greco, vuol dire dividere. Qui è stato spezzato il legame che deve esserci sempre, e tanto più nella giustizia, tra fatti e giudizio. I fatti sono stati trascurati e sono stati sostituiti dai pregiudizi della canea popolare, dall'odiosità verso un bocconiano biondo, educato, perfetto per il romanzo criminale che si voleva scrivere.
La sentenza di colpevolezza non è stata un giudizio ponderato, ma un impalamento sconsiderato. Impalare significa esporre, inchiodare, rendere esemplare una vittima. È esattamente ciò che è stato fatto. Prima si è deciso che il colpevole dovesse essere lui, poi si è adattato il processo a quella decisione. Questo non è diritto, è arbitrio travestito da procedura.
E ora, come sempre accade quando l'edificio scricchiola, si tenta di zittire l'innocente. Si dirà che sorride, che non soffre abbastanza, che non ha la postura giusta del condannato modello. Orrendo. Come se il dolore dovesse obbedire a un galateo. Come se l'innocenza dovesse chiedere scusa per esistere. Per anni non c'è stata una prova. Non l'arma, non il movente, non una traccia biologica certa. Nulla. Solo indizi stiracchiati, interpretazioni forzate, suggestioni mediatiche. Ora, finalmente, una prova c'è. Ed è una prova che scagiona. Tutto il resto è rumore utile per distrarre. Dinanzi all'errore che fa orrore, starsene sul divano, immobili, piluccando pop corn e sorbendo la gazzosa con la cannuccia, è l'unica forma di tolleranza per me intollerabile. Quando l'errore diventa sistema, si trasforma in un'ostinazione a cui occorre opporre un alt, da parte di chi può.
A questo punto formulo una proposta che so essere fuori dal minuetto protocollare, ma necessaria come un intervento chirurgico d'urgenza per salvare il paziente, che in realtà sono due: Alberto e la giustizia. L'articolo 87, comma 11, della Costituzione stabilisce che il Capo dello Stato "può concedere grazia e commutare le pene". Non è un potere ornamentale. È un dovere estremo quando la giustizia si dimostra brigantesca. Qui siamo oltre l'errore: siamo davanti a una vita impalata nonostante l'assenza di prove, e ora nonostante l'emergere di una prova liberatoria.
La grazia
sarebbe uno sbrego salutare. Un atto di pietà civile. Il riconoscimento che lo Stato può sbagliare gravemente e che, quando lo fa, deve intervenire. Non per umiliare la magistratura, ma per salvare l'idea stessa di giustizia.