
«L'Aeronautica militare israeliana domina i cieli di Teheran. Questo cambia completamente la natura della campagna». Parola di Bibi Netanyahu. Ma l'affermazione del premier israeliano ha senso solo se si considera il luogo in cui è stata pronunciata, ovvero quella base di Tel Nof da cui partono molti dei raid diretti sull'Iran. Sono dunque le parole di un premier intento a incoraggiare i propri piloti. Se lette in chiave politico-strategica quelle stesse parole non hanno invece molto senso.
La storia insegna che gli Stati Uniti hanno avuto l'assoluto dominio dei cieli in buona parte delle guerre degli ultimi 70 anni dalla Cambogia all'Afghanistan, dall'Irak alla Libia. Alla fine, però, i Khmer Rossi appoggiati da una popolazione stremata dalle bombe dei B52 sono entrati a Phnom Penh, i talebani hanno riconquistato il potere a Kabul, gli ex soldati di Saddam si sono trasformati prima in insorti e poi in terroristi dell'Isis. Mentre la Libia martellata dalle bombe della Nato è precipitata nel caos. E il confronto non migliora se sostituiamo gli Usa con Israele. Nel 1982 il governo di Menachem Begin aveva l'assoluto controllo dei cieli del Libano, ma alla fine - travolto dallo sdegno internazionale per i bombardamenti indiscriminati e le stragi di Sabra e Chatila - fu costretto a lasciar partire Arafat e l'Olp alla volta di Tunisi. E aveva l'assoluto dominio dei cieli anche nella guerra contro Hezbollah del 2006 quando dovette firmare un cessate il fuoco con il nemico. A Gaza le cose non sono andate meglio. Lì la superiorità aerea era manifesta sin dal primo minuto visto che il nemico non possiede un'aviazione. Eppure 620 giorni dopo Tsahal non è ancora riuscita a cancellare la presenza di Hamas. Né a liberare gli ostaggi. E, tantomeno, a spiegarci che ne sarà della Striscia.
In un conflitto, insomma, non basta dominare i cieli o imporre sconfitte durissime al nemico (in Vietnam l'America non perse una sola battaglia), ma perseguire un obiettivo politico e strategico che oltre a essere definito sia anche raggiungibile. Perché solo questa prospettiva garantisce l'uscita dalla nebbie della guerra. Ora la prima incognita del conflitto in corso è l'obbiettivo strategico. Netanyahu fin qui si è ben guardato dallo spiegare se l'operazione «Leone che sorge» punti «solo» alla distruzione delle infrastrutture nucleari o persegua l'abbattimento del regime. In entrambi i casi c'è un serio problema di fattibilità. Molte delle infrastrutture nucleari, a partire dal «santuario» atomico di Fordow realizzato a 80 metri di profondità, sono irraggiungibili senza l'aiuto americano. Solo le bombe anti-bunker da 14 tonnellate - trasportate esclusivamente dai bombardieri strategici B2 degli Usa - possono distruggere quell'obiettivo. L'alternativa, politicamente non molto sostenibile, è usare un'atomica tattica. Diversamente bisogna prefigurare un'incursione di terra che però, a conflitto in corso, non può beneficiare dell'effetto sorpresa. Dunque la superiorità aerea non rappresenterebbe una premessa per la vittoria neanche se l'obbiettivo fosse la distruzione delle infrastrutture atomiche. Anche perché solo una verifica sul terreno garantirebbe che una parte dell'uranio arricchito, o di una testata, non siano rimasti nella disponibilità del regime.
In quest'ottica solo un cambio di regime garantisce la non replicabilità della minaccia nucleare.
Ma per conseguirlo bisognerebbe individuare una forza d'opposizione capace di guidare una sollevazione popolare e aver la meglio sulle centinaia di migliaia di pasdaran e milizie basiji destinate a sopravvivere ai raid israeliani. Una forza politica che nessun analista è ancora riuscito a identificare.