Toh, l'odiata Fiat ha salvato i posti di lavoro

Un bilancio a quattro anni dalla firma del contratto Fiat a Pomigliano

Toh, l'odiata Fiat ha salvato i posti di lavoro

È decisamente più fruttuoso per un politico o un sindacalista creare 10 posti di lavoro che evitare se ne perdano 100. Nel primo caso, tutti a incensare l'opera buona e giusta realizzata. Magari grazie alle imposte tolte dalle tasche dei cittadini e spesso per posti di lavoro improduttivi. Al contrario, evitare che si perdano occasioni di impiego implica comportamenti meno visibili, manutenzioni impercettibili delle norme, accordi impopolari. Tutte cose che difficilmente meritano il grande onore della cronaca.

Vi facciamo due esempi concreti e affatto diversi.

Il primo riguarda la Fiat (ora Fca). Vi ricordate la lunga trattativa sul rinnovo del contratto di lavoro a Pomigliano di quattro anni fa? Portò all'uscita del Lingotto da Confindustria e al lancio, nel firmamento delle star politiche, del fino ad allora sconosciuto Maurizio Landini. Che fece uscire la sua Fiom dalle rappresentanze di fabbrica e dalla stipula del contratto. All'epoca tutti gli altri sindacati rimasero responsabilmente con Sergio Marchionne. A quattro anni di distanza cosa è successo? I sindacati metalmeccanici di Cisl, Uil, Fismic e Ugl, grazie ai loro comportamenti coraggiosi, hanno reso possibili più di 4 miliardi di investimenti della Fiat (Pomigliano, Grugliasco, Melfi, Mirafiori e Atessa) e altri 5 previsti nei prossimi 36 mesi solo su Alfa Romeo (Cassino, soprattutto, e probabilmente Mirafiori).

Negli ultimi quattro anni nessuno degli oltre 62mila dipendenti della Fiat ha perso il lavoro, mentre nel settore metalmeccanico sono rimasti a casa in 200mila. A settembre 2014 è diminuita del 20% la cassa integrazione. Il sindacalista più rappresentativo (la Fiom è solo la quinta per rappresentanza nelle fabbriche), Ferdinando Uliano (Fim-Cisl), che si è battuto con Rocco Palombella (Uilm) e Roberto Di Maulo (Fismic) per fare un accordo ragionevole con Marchionne e per questo motivo ha preservato, nella crisi, tanta occupazione, meriterebbe un po' di riconoscenza. È più facile urlare all'occupazione delle fabbriche, che con il cacciavite accomodare un accordo per tenere tutti gli interessi insieme.

Cambiamo decisamente campo. E andiamo in quello dell'odiata finanza. Da una parte, si attribuiscono a essa tutte le responsabilità della crisi. Dall'altra, si dice che il nostro gigantesco stock di risparmio sia la nostra miniera. E il risparmio chi pensate lo gestisca? Babbo Natale? O uomini che hanno studiato finanza? Ebbene, la politica alla ricerca del facile consenso è sempre lì a spremerla. La perla è stata la Tobin tax, una cosa da pazzi. E ancora, la mini-patrimoniale, fatta di bolli sui conti correnti e di deposito, che può essere manovrata a piacimento, come un grilletto di un Kalashnikov fiscale. E poi i continui incrementi delle tasse sulle attività finanziarie.

Non contenti, cerchiamo di bastonare quei pazzi che ancora gestiscono il nostro risparmio in Italia. Una della poche società indipendenti del risparmio gestito, che si chiama Azimut, ha appena chiuso un accordo transattivo con il nostro fisco per circa 120 milioni. Azimut raccoglie circa trenta miliardi di euro, non ha un padrone, è quotata, non è una banca, ha deciso di replicare il suo successo in tredici Paesi nel mondo. Quando circa dieci anni fa si quotò, l'informazione mainstream e filo-banche scriveva che sarebbe stato un flop. Il titolo ha guadagnato da allora quasi il 400 per cento. Si ostina ad avere la sede legale in Italia, nonostante due dipendenti su tre li abbia ormai all'estero. Il suo leader, Pietro Giuliani, considera la transazione con il fisco ingiusta, e la vive come un obolo pagato a un Paese in cui, nonostante tutto, ancora crede. Oggi cerca un accordo con il fisco che gli garantisca nel futuro un tax rate simile a quello dei suoi concorrenti.

Ecco un'altra invisibile attività che per la politica non è elettoralmente sexy, ma è fondamentale per l'occupazione nel Paese.

La Finanza non è il «wolf» di Wall Street, la finanza è giovani laureati delle nostre università costretti a lavorare in giro per il mondo per società estere che per di più gestiscono i nostri quattrini e il nostro risparmio.

Non sarebbe più conveniente fare la pace con le poche aziende che ancora si ostinano, per una sorta di romanticismo ottocentesco, ad avere le proprie sedi in Italia?

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