
C'è un secolo che finisce prima del suo tempo, e non è il Novecento. È il secolo dell'egemonia occidentale. Le previsioni di Goldman Sachs, PwC e Ocse concordano: entro il 2050 il baricentro dell'economia mondiale si sarà spostato a Oriente e nel Sud globale. Cina, Stati Uniti e India guideranno la classifica, seguite da Indonesia e Germania, ultimo baluardo di un continente che fu centro del mondo e oggi non lo è più. Tra le prime venti compariranno Brasile, Messico, Egitto e Nigeria. L'Asia concentrerà oltre la metà del Pil mondiale, l'Occidente poco più di un quarto.
Nel 2075 il sorpasso sarà definitivo. La crescita economica seguirà quella demografica, insieme alla fame di futuro. Il vecchio mondo, invecchiato per davvero, diventerà una minoranza ricca ma marginale, chiamata a competere solo su conoscenza ed equilibri strategici.
Samuel Huntington, nel suo celebre Scontro tra civiltà lo aveva previsto, già trent'anni fa: l'egemonia occidentale non si sarebbe conclusa con le armi, ma con lo spostamento del potere economico e il crollo della sua influenza culturale. Il nuovo mondo, intanto, si organizza. A Rio de Janeiro i Brics hanno sancito la nascita del fronte economico del Sud globale: alternativa al dollaro, investimenti comuni e promessa di una nuova governance del mondo. A Tianjin si sono riunite Cina, India e Russia per costruire un asse euroasiatico post-atlantico. Xi Jinping ha proposto una banca di sviluppo, Modi ha riaperto il dialogo con Pechino, Putin gioca su più tavoli senza far mistero di guardare a Est. Ed è anche per questo che l'apparato americano, non soltanto Trump, ha provato a riallacciare i rapporti con Mosca: non è tanto l'Ucraina il tema sul tavolo, quanto evitare che l'orso russo scivoli definitivamente sotto l'influenza cinese.
Sin da quando l'uomo si fa la guerra con i bastoni, ogni squilibrio economico tra gruppi sociali, fino alle civiltà, genera uno scontro. Ma oggi quello scontro non è più soltanto militare: come aveva anticipato Huntington, è diventato culturale. Ed è proprio qui che l'Occidente mostra il ventre molle.
Gli ultimi anni saranno consegnati alla storia come quelli della grande crisi d'identità occidentale: wokismo esasperato, classi dirigenti accademiche, culturali, politiche e mediatiche impegnate a spiegare come e perché la colpa di ogni male del mondo sia dell'Occidente. La storia, ancora una volta, insegna: le civiltà crollano da dentro, non da fuori.
Il resto del mondo questa fragilità la cavalca, la orienta, la costruisce. Le guerre non si combattono più solo con gli F-35, ma anche con gli algoritmi cinesi di TikTok o con i profili fake che riempiono Meta. Non solo con le armi, anche con le masse. Nessuna morale, solo geopolitica. Non serve un giudizio morale, per comprendere quanto il collasso di Israele in Medio Oriente sia interesse di chi si riunisce a Teheran o a Pechino. Israele, come Kiev, è naturalmente un pilastro della geopolitica occidentale. Ed è ovvio che ci si muova in una direzione o nell'altra. Non è un caso che chi è sensibile alle ragioni di Putin lo sia spesso anche a quelle di Hamas: un filo unisce queste posizioni, la visione che vede l'Occidente come padre di tutti i mali del mondo. Una narrazione che era sovietica in un mondo bipolare, oggi rimbalzata con ben più forza dal resto del pianeta.
Mentre le nuove potenze costruiscono il futuro con piani e alleanze, l'Occidente risponde con emozioni, manifestazioni e sensi di
colpa. Meno male, ovviamente: l'ultimo baluardo morale sarà sempre la libertà, quando la democrazia si riscoprirà relegata a modello minoritario.Il piano, intanto, è sempre più inclinato e il futuro gioca da un'altra parte.