
Simone Moro è un famoso alpinista alla vecchia maniera (ne esiste una nuova, come vedremo) o forse è uno degli ultimi alpinisti e basta. Ha 57 anni e detiene il record delle prime salite invernali di 4 ottomila, un primato che nessuno potrà portargli via. Ha vinto premi legati al suo coraggio nel riuscire in salvataggi impossibili (è medaglia d'oro al valor civile) e ce ne sarebbero di cose da raccontare, ma ricominciamo dal suo nuovo libro, Gli Ottomila al chiodo (Rizzoli) che è un bignami di storia dell'alpinismo ma anche una riflessione su ciò che rimane dello spirito d'avventura quest'epoca "post-eroica".
Ricominciamo da capo. È uno sport, l'alpinismo?
"No. Non on c'è una federazione, un regolamento, non ci sono i campionati o la nazionale o le Olimpiadi, non c'è un arbitro o la diretta. Non c'è neppure un premio. Mancano le dinamiche di una qualsiasi disciplina sportiva".
Ci sono le gare di arrampicata.
"Infatti non è alpinismo. Se fosse uno sport girerebbero tanti soldi come in tutte le attività rischiose: pensa alla Formula Uno o al motociclismo. No, non è uno sport".
Dieci anni fa ti chiesi se l'Everest, tra spedizioni commerciali e circhi del campo base, ormai ce lo fossimo perso. Tu rispondesti "sì, ma solo per due mesi l'anno". Ora però racconti l'incredibile: in Nepal non si può scalare senza infiniti permessi e certificati, è obbligatoria la bombola di ossigeno, le solitarie senza guida sono vietate. Tu scrivi che oggi, con queste regole, non avrebbero lasciato partire neanche Messner.
"Se l'avessero obbligato a usare l'ossigeno sull'Everest, nel 1978, non ci sarebbe stata la sua prima storica salita senza usarlo, non ci sarebbe stata la sua prima solitaria sempre sull'Everest né altre imprese eroiche dei più celebri alpinisti".
Tracciami l'identikit dell'himalayista moderno.
"Al 97 per cento è un cliente che si rivolge a un'agenzia che organizza spedizioni come altre organizzano safari o crociere: l'assistenza è minuziosa, quasi da babysitter, danno indicazioni sui materiali, certificati, norme, lo accompagnano per mano nel mondo dell'alta quota".
E l'alpinismo tradizionale?
"Non è proibito, ma in pratica non è più contemplato: non almeno nel periodo primaverile, che è quello più favorevole. Vale per 9 cime su 14, perché 5 si trovano in Pakistan, dove c'è ancora libertà sebbene l'alpinismo turistico sia arrivato anche là. Su Annapurna, Everest, Lhotse, Dhaulagiri, Makalu, Manaslu, Cho Oyu e Kanchenjunga (salendo dal versante nepalese) e su Shishapangma e ancora su Cho Oyu ed Everest (dal versante tibetano) gli alpinisti tradizionali subiscono grandissime limitazioni. I clienti delle spedizioni commerciali, invece, accompagnati da guide e portatori, e quasi nessuno ha una cultura alpinistica: non sanno quasi usare picozza e ramponi, le manovre di autosoccorso sono a zero, non hanno idea di dove si trovano".
Quando è esploso questo turismo di massa in alta quota?
"Negli ultimi 15-20 anni: gente che spende da 100mila a 150mila euro a vetta e che, spesso, acquista dei pacchetti vip per salire più cime nel tempo".
Ma bisognerà essere un minimo capaci.
"Al campo base gli fanno un corso minimo e via, partono con due o tre sherpa a testa che si caricano tutto, bombole per l'ossigeno comprese: gli posizionano le corde fisse, cucinano, portano tende e sacchi a pelo. Questi turisti, in sé, non fanno nulla di male: ma le vette sono diventate monopolio delle compagnie che li amministrano".
E nel resto dell'anno? D'inverno, almeno, gli ottomila torneranno agli alpinisti di vecchio conio.
"A parte il Manaslu che è salito anche in autunno, le altre cime ridiventano deserte, spopolate e selvagge".
Non è un compromesso accettabile?
"Il problema, per esempio, è che la Cina non rilascia più permessi per le salite invernali: dicono che è pericoloso. In Nepal dicono comunque che devi avere una guida".
Un modo si troverà. Non ci credo che non ci sia un modo.
"Aggirare l'ostacolo si può sempre: basta pagare una guida, per dire, perché se ne resti al campo base. Resta che devi sempre trovare dei sotterfugi contro regole che limitano l'alpinismo inteso come libertà: mentre quelli che Messner chiama alpinisti della pista non concepiscono altri modi di salire".
Figurarsi tu, che sali d'inverno e senza ossigeno.
"Sono arrivati a chiedermi se salivo così, d'inverno e senza ossigeno, perché volevo risparmiare. Non sanno nulla, non sanno chi fossero Mallory, Bonatti, Cassin".
Almeno Messner lo conosceranno.
"Solo perché ispira la scelta di acquistare il pacchetto dei 14 ottomila da fare in qualche anno: ma non sanno che il K2 è in Pakistan, o dove siano le altre cime, non sanno niente. Lo vedo quando li porto in elicottero: non hanno idea dei luoghi che sorvoliamo".
Un'altra volta avevi detto che è diventato difficile impressionare. Colpa della famigerata comunicazione globale?
"Le immagini anche estreme che vediamo sugli smartphone ci inseguono notte e giorno: ovvio che, rispetto a pochi decenni fa, la narrazione peraltro ritardata di un'avventura in mondi remoti abbia un impatto minore. L'ammirazione per l'alpinista col viso cotto e le mani scorticate non c'è quasi più".
Facciamola breve: è la fine dell'alpinismo?
"Le nuove vie sono infinite. Ci sono i settemila: decine sono ancora inviolati. Poi ci sono migliaia di seimila. Ci sono vie che nessuno ha più ripetuto, come quella al Gasherbrum IV di Bonatti, fatta nel 1958: e ci hanno provato. Vuoi emulare Bonatti? Non c'è da inventare chissà che cosa: basta ripetere una sua via con l'attrezzatura moderna che lui non aveva. C'è la via di Andrej Kukuczka sul K2. Nessuno è più tornato sull'Everest in agosto, come fece Messner da solo nel 1980. C'è talmente tanta roba da fare. Penso ai gruppi montuosi dell'Afghanistan, del Pamir, kun Lun, Thien shan che sfiorano i 7mila metri: un mondo da esplorare magari in santa pace, senza fracasso o ansia di notorietà".
Devo chiedertelo: i social. Che rapporto hai?
"Purtroppo sono anche gonfi di veleno, di gente che critica senza sapere. Se io scrivo sul web che ho camminato nel mistero di una valle spopolata del massiccio del Kanchenjunga, subito raccoglierò il commento sul ghiacciaio che si scioglie, sulla mia responsabilità nell'inquinamento. C'è la tendenza a colpevolizzare l'entusiasmo di ogni azione fuori dalla norma. Magari dicono: tu non lavori, scali perché hai lo sponsor, voli in aereo e inquini. Se vado in elicottero a salvare un alpinista con un edema celebrale, in due mi scrivono bravo, in cinquanta che salvo gli stupidi che contribuiscono a sporcare".
Non ti fanno un po' pena quei tizi in coda in Himalaya?
"No, rispetto tutti e la loro libertà, ma preferisco esortare a conoscere le migliaia di montagne inesplorate che aspettano di essere trovate.
Bisognerà scovarle, renderle interessanti con racconti e immagini in grado di stimolare sogni e desideri: solo questa ispirazione potrà attrarre qualcuno di questi turisti verso qualcosa che sia più unico e più autentico del mettersi in fila indiana nel giorno della vetta".