
Dietro gli occhiali da vista si muovono due occhi velocissimi e curiosi. Al primo sguardo hai l'impressione che, oltre quelle pupille, stia lavorando una macchina che macina rapidamente numeri e statistiche. Anche sul proprio interlocutore. Ma basta pochissimo per capire che Nicola Piepoli - torinese, novant'anni appena compiuti, celeberrimo sondaggista -, non si occupa solo di numeri. Anzi.
Professore, credeva statisticamente di arrivare a un traguardo così importante?
"No, pensavo di meno. Mio padre è morto a 84 anni e mia madre anche. Non pensavo di superarli. Io mi sono sempre trattato bene, ma statisticamente c'è anche del buon sangue".
Come si è "trattato bene"?
"Il metodo. Innanzitutto il primo trucco è mangiare regolare: sempre e comunque alla stessa ora. La stessa cosa vale per il sonno, vado sempre a dormire alle dieci di sera, anche se ci sono persone ancora sveglie a casa mia. Questo stile mi ha permesso di vivere e lavorare tanto, portando a casa ottimi risultati".
Si guadagna tanto a fare il sondaggista?
"No, ho guadagnato il giusto. Nell'ambito della mia vita professionale non sono stato quello che ha fatto più soldi. Io in sessant'anni di attività ho fatturato 200 milioni di euro, Gianpaolo Fabris di Doxa ne ha fatti 400. E ormai non credo di poterlo raggiungere nei prossimi anni...".
Facciamo un passo indietro, come è nata la passione per i sondaggi?
"Io ho scoperto i sondaggi a undici anni, nel 1946, grazie a una rilevazione fatta dalla Doxa di Pier Paolo Luzzato Fegiz per Oggi sul referendum per la monarchia. Mia madre, che era nobile, era per il re. Mio padre, che essendo vicerettore al Convitto nazionale di Novara ragionava da intellettuale, pensava che fosse meglio la repubblica. Mio padre non ha educato solo me, ma almeno altri 4999 colleghi, tanti sono gli studenti che ha avuto. Tra loro c'era anche un certo Oscar Luigi Scalfaro...".
Torniamo alla sua gioventù...
"Mio padre mi aveva educato a resistere ai bombardamenti attraverso la lettura dei libri. A otto anni avevo già letto I promessi sposi, Le ultime lettere di Jacopo Ortis e Guerra e pace.
Un enfant prodige.
"Beh, passavo molto tempo in cantina. Facciamo un calcolo: tre ore di lettura al giorno per circa 200 notti, significa che ho letto quasi 600 ore. Si legge tanto in 600 ore...".
Professore, scusi la digressione, lei ha sempre avuto una passione per cantine e bunker. Si parla molto di un suo rifugio antiatomico...
"È stata una cosa naturale. Nel 1945 ho assistito alla catastrofe atomica e sono rimasto sconvolto. Allora mi sono ripromesso che quando avrei potuto ne avrei comprato uno. In questo momento ne ho uno, perché sento il dovere nei confronti della mia famiglia di prevedere un bombardamento".
Non mi starà dicendo che prevede una guerra nucleare imminente?
"No, è una previsione stocastica. Una guerra prima o poi capiterà. Ho comprato la casa con il rifugio a Montreux, in Svizzera, una decina di anni fa."
Va spesso nel bunker?
"No, sto in casa. Ma accarezzo il bunker, nel senso che lo rifornisco di acqua e cibo in scatola. Ho razioni per un tempo stimato di tre mesi".
La fa sentire più tranquillo sapere di avere un bunker?
"Sì, mi tranquillizza molto. Anche se so che se non sono in Svizzera non posso raggiungerlo. Questo perché c'è un'esperienzialità, precisamente del 29 ottobre del 1962".
Mi racconti cosa è successo.
"I tredici giorni della crisi di Cuba. Quel giorno, era un venerdì, telefono a un mio cliente francese a Losanna e gli chiedo: Mi ospiti stasera?. E lui mi risponde: Piepolì! Ti ospito, ma le frontiere sono chiuse, per entrare devi superare una mitraglia. Quel giorno ho capito come funzionano le cose e ho anche capito che un rifugio è sempre meglio averlo che non averlo".
Torniamo indietro. Eravamo rimasti alle letture infantili. E poi?
"Continuo a studiare e poi mi laureo in legge. Anche se ero bravo in tutte le materie sia scientifiche che letterarie. Perché sono naturalmente un chicchirichì...".
Scusi? Un chicchirichì? Cosa vuol dire?
"Voler essere il top, il primo della classe. E lo sono sempre stato. Tranne che all'università, dove eravamo quattro o cinque a primeggiare ed eravamo tutti amici. Tra noi c'era anche Franco Reviglio, che sarebbe stato tre volte ministro".
Qualche altro nome?
"Gianpaolo Pansa, eravamo amicissimi, ma facevamo a gara, perché anche lui era un grandissimo chicchirichì. Reviglio invece non era chicchirichì, stava un po' più in disparte".
E dopo la laurea?
"Non sapevo cosa fare. Fare l'avvocato o il giudice mi sembrava noioso. Mi piacevano di più le statistiche e l'economia, ma non pensavo ancora alle ricerche di mercato".
E poi cosa succede?
"Mi assumono in banca e accade un episodio che mi ha cambiato la vita. L'istituto di credito aveva un problema: scarseggiavano i clienti. Mi sono chiesto il perché e sono uscito a far domande alle persone che passavano. Non era un campione rappresentativo, ma ho ottenuto risposte interessanti: una delle criticità era che non facevamo pubblicità, a differenza di altri. Lo dico al direttore e lui mi chiede: Come lo hai saputo?. Io gli rispondo che lo ho scoperto interrogando la gente e lui mi incalza: Ma Piepoli perché interroghi la gente, è inutile, non lo fa nessuno. E mi viene il dubbio di aver sbagliato".
Stava per mollare?
"No, perché penso a quello che mi aveva insegnato Norberto Bobbio: non siamo mai soli. Quindi aveva senso interrogare le persone".
É stato alunno di Bobbio?
"Ho seguito le sue lezioni per due anni, il miglior professore che ho avuto".
E quindi, grazie a Bobbio, non molla la statistica.
"No, tutt'altro. Vado in biblioteca in piazza Arbarello a Torino e mi fanno vedere i libri sulle ricerche di mercato, testi che sono pietre miliari attuali ancora oggi. Così inizia tutto..."
Ma dai libri come arriva al mondo del lavoro?
"Suono al campanello della Doxa, ma non mi assumono, perché hanno già troppi dipendenti, ma mi segnalano a un altro istituto dove mi prendono e inizio a occuparmi dell'area industry. Una delle prime ricerche che ho fatto è stata sul mercato delle motoseghe a catena".
E poi crea il suo istituto...
"Sì, nel 1965 mi sono messo in proprio con mia moglie. E da allora faccio ricerche. L'unico vero concorrente è stato Fabris che, nel mio lavoro, è stato il più chicchirichí di tutti. Ma io non ho fatto solo ricerche, sono anche stato un inventore di tecnologia. Avevo pensato, negli anni Novanta, a uno strumento computerizzato da collegare al telefono e alla corrente per elaborare i dati statistici, si chiamava Top, terminale di opionione pubblica. Avevo prodotto un prototipo, ma poi ho avuto una grossa commissione di lavoro per una ricerca e ho abbandonato il progetto".
Professore, lei è stato un re dei sondaggi politici. Come avete cambiato la politica?
"Noi sondaggisti non abbiamo migliorato la politica, perché non ce lo hanno richiesto. I miglioramenti si raggiungono attraverso ricerche di problem solving. Ma i politici pensano di avere già tutte le risposte. Non mi chiedono cosa fare, mi chiedono di vincere. Ma ho fatto vincere chi mi ha chiesto cosa fare".
Ci faccia qualche nome...
"Preferisco di no, ma le racconto che anni fa, in una grande città, ho collaborato con un candidato sindaco che è partito dall'8 per cento e poi ha vinto abbondantemente. Abbiamo fatto squadra e lavorato molto bene insieme".
Era Francesco Rutelli?
"Non confermo...".
Lei ha lavorato anche con il governo Berlusconi.
"Certo, mi scelse Bonaiuti. Posso dirle che ho rivalutato Berlusconi, all'inizio non ne avevo una idea positiva. Ne ho rivalutato l'etica, ho scoperto la sua meritocrazia. Ed è stato corretto con il Paese, ha fatto due gesti che mi sono rimasti impressi: nel 2006 ha perso le elezioni per 24mila voti, pochissimi. Avrebbe potuto fare qualunque cosa, ma non la ha fatta e ha accettato la sconfitta. Così come quando Napolitano lo ha cacciato da palazzo Chigi e, anche in quel caso, con un atto etico, ha accettato la cosa".
Ha avuto politici amici?
"Non frequento la politica. Sono amico e stimo molto Romano Prodi, ma non ho mai lavorato per lui".
Cosa pensa di Giorgia Meloni?
"Per me la cosa più importante è la guerra. E la Meloni conosce e rispetta la legge di non belligeranza. Questa posizione non interventista del governo mi piace molto. La non belligeranza è nata con Mussolini, l'Italia è stata non belligerante dal primo settembre del 1939 al 10 giugno del 1940. Eravamo alleati della Germania, ma non combattenti. Questo non lo ricorda mai nessuno. Però fammi parlare di una cosa...".
Di cosa?
"Del futuro... Ho delle buone idee per il futuro, una mi è venuta quattro mesi fa: sto facendo delle ricerche sulla natalità. Studio le città e le province dove nascono più figli per trovare una soluzione nazionale. Servono almeno cinque anni di lavoro. E poi sto sviluppando delle tecniche per togliere il negativo dalle nostre vite, incominciando da noi stessi.
Dobbiamo combattere il male dentro di noi, generando un'onda che si estende agli altri: dal primo livello - che è quello personale -, al secondo - quello della famiglia-, al terzo - quello aziendale -, al quarto - quello della città -, al quinto - quello dello Stato -, al sesto e settimo - che sono gli interstati e il mondo. È un cammino per la pace".