
Quando nel novembre del 1989 venne abbattuto il Muro di Berlino l'Occidente fu attraversato da una comprensibile euforia. E una certa allegria di naufragi attraversò anche i Paesi del blocco sovietico e la stessa Urss. Il nuovo corso di Gorbaciov come segretario del Pcus, pur partito tra crisi e lisi, tra timidezze e compromessi politici, faceva sperare che l'Urss potesse andare incontro ad un profondo processo di democratizzazione che riuscisse a cambiare dall'interno un sistema che aveva prodotto una delle più lunghe e feroci dittature della Storia. Sarebbe dovuto bastare il tentativo di colpo di Stato dell'agosto del 1991, con Gorbaciov prigioniero nella sua dacia in Crimea e Boris Eltsin assediato a Mosca, per far capire che esistevano meccanismi profondi, radicati nell'autocrazia zarista ed ereditati e potenziati dallo stalinismo, che non se ne sarebbero andati in fretta. Eppure proprio nel 1992 il politologo Francis Fukuyama pubblicava La fine della Storia e l'ultimo uomo che preconizzava un mondo dalle sorti univoche se non magnificamente progressive. Forse è troppo facile criticare con il senno del poi ma queste sorti le stiamo vedendo, compreso il ritorno dell'autocrazia putiniana in Russia e i suoi esiti in termini di aggressività bellica.
Allora, mettendo di lato il senno del poi è interessante leggere, per la prima volta in edizione italiana, La tomba di Lenin (Settecolori, pagg. 888, euro 34) del premio Pulitzer David Remnick. In quegli anni Remnick era inviato in Urss del Washington Post e documentò l'avvento della perestrojka passo dopo passo. Il risultato di quell'esperienza è questo corposo volume che, a leggerlo, nonostante la mole, scorre alla velocità della luce. Pubblicato in lingua inglese nel 1993 raccoglie biografie, fatti, testimonianze, sensazioni e coglie in pieno l'entità del diluvio che fu il crollo dell'Urss. Leggendolo è impossibile non capire quanto fosse aleatorio sperare che l'inferno del comunismo reale potesse sparire come niente fosse. Tanto più che molti dei diavoli di quell'inferno si dimostrarono subito capacissimi di riciclarsi in una Russia dove si poteva far passare per capitalismo qualsiasi forma di sopruso o violenza. Per dirlo con le parole del giornalista: "Nel 1989, nel bel mezzo del processo di riforma messo in moto da Michail Gorbaciov, due rinomati socio-politologi, Andranik Migranjan e Igor Kljamkin, pubblicarono un dialogo (...) in cui Migranjan osservava: mai, in nessun Paese del mondo, si è avuta una transizione diretta da un regime autoritario alla democrazia (...) All'epoca, gli intellettuali liberali di Mosca, liquidarono l'articolo come pessimista e sbagliato, una previsione sbagliata. Ora non lo pensano più".
E da ogni racconto raccolto da Remnick risulta evidente il perché. Leggendo si incontra l'infanzia del dissidente Pavel Litvinov che dopo anni di pedagogia makarenkiana subita a scuola era stato a un passo dal denunciare i suoi stessi genitori. Oppure ci si avventura nei meandri del Politburo dove, per il semplice fatto di voler reintrodurre lo studio della Storia senza deviazioni politiche, Gorbaciov aveva la sensazione di dover navigare in un "lago di benzina". Poi ci sono i racconti degli ex agenti del Kgb, l'incredulità di chi non sa più come giustificare un'esistenza di violenza e ambiguità condotta dietro l'alibi di un'idea (oltre che di uno stipendio che mette insieme il pranzo con la cena e magari il sogno di una casa per le vacanze). Del resto l'orrore arrivava al punto che il villaggio vacanze degli agenti segreti russi era situato a pochissima distanza da dove erano stati nascosti i resti degli ufficiali polacchi prigionieri massacrati a Katyn durante la Seconda guerra mondiale. Così gli agenti in vacanza garantivano che nessuno indagasse su quel crimine di Stalin, che era bello far ricadere sui nazisti e aveva consentito di decapitare la futura classe dirigente polacca. Miserie sopra a miserie senza più nemmeno gli "occhiali rosa" delle bugie di regime. Per citare di nuovo Remnick In questo caso la sua prefazione al volume del 2010 "nella Russia di oggi, la demokratija, così come è emersa negli anni Novanta, è spesso chiamata dermokratjja, ovvero democrazia della merda". O ancora: "Un minuto prima sei l'homo sovieticus circondato dalla blandizia aggressiva del comunismo, un minuto dopo stai guardando una civetta slava che succhia una ciliegia al maraschino e ti dice quale casinò visitare". Quando si è ripresentato l'uomo forte che veniva dal Kgb tutto è finito come aveva previsto lo scrittore Vladimir Sorokin in un suo romanzo distopico, dal titolo La giornata di un oprichnik (oprichnik significa sgherro del potere).
La trama? In una russia autoritaria del 2028 il dittatore controlla tutta l'informazione, lo stato campa di petrolio e gas, e il popolo per sopravvivere deve venerare il despota. Sorokin in fondo ha solo sbagliato i tempi, infatti è dovuto scappare dalla Russia nel 2022 quando è iniziata la guerra in Ucraina.