Il grande storico Edward Gibbon, che visitò Milano nel 1764, per prima cosa andò a vedere la Grande Chiesa, come tutti chiamavano allepoca il Duomo, ma non ne rimase affatto impressionato: «Ha una pessima collocazione, strangolata dalle costruzioni vicine che ne limitano la vista. Linterno non mi ha particolarmente colpito... e lesterno ha laspetto piccolo e meschino». Il musicologo Charles Burney, che vi capitò nel 1770, trovò la Biblioteca Ambrosiana minuscola, ma soprattutto si stupì di quanto costasse tenere aperta la fabbrica del Duomo: «Benché sia in costruzione da più di quattrocento anni, non è né sarà mai finita... ci sono parti belle ma complessivamente è di cattivo gusto, anche per essere una struttura gotica». George Gordon Byron, in visita alla città nellottobre del 1816 e in vena di superlativi, invece trovava «la cattedrale imponente, il teatro sontuoso, la biblioteca eccellente» anche se «delle gallerie non so nulla, eccetto il fatto che mi è piaciuto un dipinto su un migliaio», mentre il suo amico Percy Bysshe Shelley, che transitò di qui un paio di anni dopo, rimase folgorato dal Duomo: «Il suo effetto, quando si staglia con le sue guglie abbaglianti sulla serena profondità del cielo italiano, o alla luce lunare, quando le stelle sembrano raccogliersi tra quelle sagome, è superiore a qualsiasi altra opera che io credevo possibile produrre in architettura».
Da parte sua, il critico John Ruskin, in uno dei suoi viaggi in Italia negli anni Quaranta dell800, scriveva alla madre: «Questa Milano continua a piacermi come sempre; è molto più italiana di Firenze per quanto riguarda la gente: non vieni infastidito o interrotto di continuo». E ancora: Marc Twain amava percorrere i viali alberati della città in carrozza, incuriosito dalla «gente gentile e cortese» e dalle «signore con una certa peluria sul viso, ben vestite, ma molto affabili»; mentre la scrittrice George Eliot fra tutto ciò che si poteva vedere a Milano, scelse la chiesetta di San Maurizio Maggiore, dove «il potere di Bernardino Luini è messo abbondantemente alla prova». E ci sarebbe da dire anche di Charles Dickens, Henry James, Edith Wharton...
Sono gli scrittori britannici e americani che tra Sette e Ottocento passarono da Milano lasciando nei loro diari, nelle lettere, in scritti di varia occasione le loro impressioni di viaggio, ora raccolte in una curiosa antologia dal titolo Milano è una seconda Parigi (Sellerio, pagg. 256, euro 10; a cura di Eleonora Carantini): zigzagare tra i pensieri di scrittori, storici, pittori, filosofi e politici alle prese con le strade infangate della città, le pesanti nebbie autunnali, gli sfarzi della Scala, il servizio ora perfetto ora scadente di alberghi e osterie piuttosto che larte «senza pari nel mondo cristiano» dei setaioli, è un esercizio molto elegante dal punto di vista letterario - visto il calibro di molte penne - e parecchio divertente da quello del costume.
Per la ricca aristocrazia americana ed europea che tra XVII e XIX secolo scendeva in Italia per il Grand Tour - è noto - le tappe principali erano rappresentate da Roma, Firenze, Venezia e in seconda battuta Napoli, Paestum e a volte la Sicilia. Quasi nessuno aveva come meta Milano, ma quasi tutti finivano per passarci, magari anche solo pochi giorni. Con sguardi sempre diversi - il futuro presidente degli Stati Uniti Thomas Jefferson, che attraversa la pianura padana nel 1787, è interessato esclusivamente alle tecniche agrarie e alleconomia, mentre Hermann Melville, nel 1857, si precipita a vedere lUltima cena di Leonardo, rammaricandosi di trovarla «sbiadita e quasi scomparsa» - ognuno di loro (ci) racconta qualcosa di unico, spesso inedito, un particolare sfuggito a tutti gli altri, e anche a noi milanesi di oggi. Come Dorothy Wordsworth, in viaggio per lEuropa nel 1820 insieme al fratello poeta William, stupefatta dalle carrozze colme di ghiaccio che riforniscono ogni giorno gli abitanti di Milano, «il cui impegno principale sembra essere una languida ricerca del piacere».
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