Con il tifone Katrina è finito il ciclo della destra liberista: questa è la sentenza della stampa à la page. Massimo D'Alema su Repubblica conferma: gli innovativi e i buoni guardano tutti a sinistra. A destra solo arretrati e cattivi. Così anche un osservatore cinico ma acuto come lui, per la ricerca di consenso, si arrende al veltronismo.
Ben più lucida l'analisi di Rita Armenni su Liberazione: le vittorie della sinistra radicale in Europa (dai referendum anticostituzione in Francia e Olanda alla Norvegia, alla Germania) dipendono dai sindacati - scrive la giornalista - che collocandosi a metà tra riformisti ed estremisti, mobilitano i militanti, l'elettorato di protesta tentato dalla destra, gli intimoriti dalla crisi dello Stato sociale. L'Armenni descrive questa tendenza come progressista. Appare, piuttosto, espressione di un blocco immobilista e conservatore come quello che rovinò le città italiane rinascimentali, incapaci di liberarsi dal corporativismo e, quindi, alla fine, di competere con gli innovativi Stati-nazioni che allora decollavano. Comunque, l'analisi in sé è convincente e spiega il pantano in cui si trova l'Europa. Quella continentale, perché in quella inglese sia Tony Blair sia il delfino Gordon Brown, pur oggetto di profferte da parte delle trade union, rifiutano di tornare alla centralità del potere sindacale che aveva quasi ucciso la Gran Bretagna.
Negli Stati Uniti, intanto, la grande confederazione Afl-Cio si è spaccata su un quesito di tipo europeo: continuare a tenere una linea protezionista, politicizzata, di supporto ai democratici, o puntare su un sindacato negoziatore, liberale, «imprenditore»? L'effetto di questa vicenda peserà molto sulle future scene politiche a stelle e strisce.
Nel nostro Paese, l'analisi dell'Armenni appare assolutamente realistica. Massimo Mascini sul Sole 24 Ore spiega come la Cgil sia ormai su una linea di modernizzazione riformista. In realtà la leadership di Guglielmo Epifani è evanescente e gli esponenti di maggior peso (da Gianni Rinaldini a Paolo Nerozzi, che controllano metalmeccanici, pubblico impiego e scuola, cioè le categorie fondamentali) sono impegnati in quel ruolo che tanti sindacalisti hanno nel resto del continente: saldare estremisti e riformisti in modo da bloccare quest'ultimi, e scoraggiare ogni apertura al mercato. Risultato quest'ultimo, che si ottiene sia con il prevalere di una linea conservatrice come in Norvegia (il welfare non si tocca) sia impantanandosi nelle grandi coalizioni che bloccano tutto: da Bruxelles a Berlino. In Italia la pervasività conservatrice sindacale è fortissima, il diritto di veto a 180 gradi. Su tutto, il sindacato (in particolare la Cgil) vuole l'ultima parola: dalla Scala a Bankitalia. Sulla scalata Bnl, per esempio, Epifani è intervenuto in soccorso al Bilbao contro l'Unipol, perché gli spagnoli per i loro legami con Luigi Abete garantivano la difesa di uno status quo, deleterio in sé ma non per gli interessi immediati dei dipendenti. In questo caso il leader cigiellino non ha prevalso. In tanti altri sì.
Oggi, poi, non si può neanche contare sulla dinamicità delle centrali più liberali come Cisl e Uil. La linea movimentista di Confindustria aveva dato possibilità di movimento ai vari Savino Pezzotta e co.: e i risultati si erano visti con la riforma Biagi e con quella delle pensioni. Ma la linea politicista e propagandistica di Luca di Montezemolo ha chiuso i vecchi spazi e ridato centralità alla Cgil.
In Italia, peraltro, l'area sociale che vuole sottrarsi alla funzione del sindacato come dominus (funzione assai diversa da quella assolutamente indispensabile del negoziatore) è molto più ampia di quella tedesca. Ma bisogna saperla rappresentare politicamente: il che non è sempre facile.
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