Cronache

«Quel giorno in via XX Settembre ho sparato io sugli americani»

«Quel giorno in via XX Settembre ho sparato io sugli americani»

(...) venuti dagli «states», giovani neri e bianchi della divisione «Buffalo» che portano con loro la certezza della pace. Pensare a migliaia di genovesi di ogni età, che non vogliono perdere per nulla al mondo l'attimo preciso nel quale il primo carro varcherà vie e piazze della Superba, e con loro decine, poi centinaia, di insorti, felici e contenti di prendersi anche loro una fetta della torta che la gloria sta porgendo a tutti, purché ne abbiano voglia. È la fine della guerra e Genova è in strada, con o senza fazzoletto rosso al collo.
Ma evidentemente non è così per tutti. Almeno non per quel pugno di giovani che in corso Buenos Aires ha rivolto i moschetti contro la colonna di tank americani, sparando come pazzi dai piani alti di Corte Lambruschini. E non è così neppure per quegli altri che pochi minuti dopo hanno ripetuto la scena in via Venti Settembre, proprio dove si trovava il negozio «Prini». Uno di questi, l'ultimo superstite vivente, Alfredo Oppicini classe 1928, si è presentato al telefono, decisissimo a raccontarmi il resto della storia di quei ragazzini. Perché se è vero che il bunker di Hitler fu difeso da soldati bambini, è altrettanto vero che gli ultimi colpi sparati a Genova dalla Repubblica di Mussolini siano da aggiudicare storicamente a volontari quasi adolescenti.
«No, non eravamo organizzati da nessuno, abbiamo fatto tutto da soli. Io avevo fatto parte degli Avanguardisti, le “Fiamme bianche” di via Cesarea. Il 24 aprile la caserma fu abbandonata e io con altri ci siamo portati via alcune armi con le munizioni. Quando si seppe dell'arrivo degli americani, salimmo sui tetti decisi a fargli vedere che c'era ancora qualcuno che non ne voleva sapere».
Va bene, dico io, sempre pensando alla scena idilliaca dei vincitori osannati e di questi che osano tirare fucilate fasciste dai tetti a guerra conclusa (e persa). Va bene, le armi erano abbandonate in caserma, ma dove avete trovato il coraggio? Intanto trattasi di cinque ragazzini e non tre. E nessun complotto stile «uova del drago». Semplici franchi tiratori fai-da-te, ma per niente stupidi.
«Eravamo io, Pasta, Martignon, un certo Temperini e Franco Franchi, che divenne un cantante di successo nella Milano degli anni '50. Avevamo due mitra, tre moschetti modello 38 e qualche bomba a mano. Sparammo dal palazzo all'angolo tra via Venti e via Fiume, poi ci demmo alla fuga, scappando sui tetti mentre gli americani sparavano alla cieca. Scendemmo non visti le scale di un palazzo che dava su piazza Colombo, mischiandoci al parapiglia di gente, poi risalimmo all'altezza del Mercato Orientale, visto che la colonna di tank era ferma e quindi potevamo sparare ancora. Ma lì successe che Franco Franchi, che era molto miope, inciampando perse gli occhiali e fece pure cadere un mitra nel vuoto. Questo, cadendo, fece partire una raffica fortissima che, da un lato rovinò i nostri piani, ma dall'altra innervosì ancora di più gli americani, che spararono in aria centinaia di colpi e uccisero per sbaglio un uomo che non c'entrava nulla».
Inutile chiedere ad Alfredo se prova rimorso, imbarazzo. Il suo tono è candidamente venato di divertimento, e anche di un non so quale rimpianto. Come dire, io potevo essere il nuovo Balilla, il Giambattista Perasso del '900, quello che scaglia il sasso e muore sulla barricata, ma nessuno mi ha visto. «Franco - mi assicura - fu al centro dei nostri sfottò, e per sua fortuna gli occhiali in qualche modo li ritrovò, sennò sai le botte del padre!». Certo, il padre faceva all'epoca più paura di una raffica di mitra. «Comunque li abbiamo fermati, per pochi minuti, ma li abbiamo fermati» mi dice con la voce che si trascina via seguita dall'affanno. È un risultato. Mi colpisce il fatto che non ha mai parlato di partigiani, comunisti e simili. Lui e gli altri avevano in mente di sparare agli americani, e solo a loro, agli odiati «yankees». E poi mi piace quel misto contraddittorio di determinazione e improvvisazione che solo gli italiani sanno maneggiare così disinvoltamente.
Capisco che parlare ancora gli farebbe piacere, ma avverto la sua stanchezza. Restiamo d'accordo per incontrarci di persona, per chiarire altri punti della storia che mi pare sempre più intrigante. Mi lascia un suo numero di cellulare, ci scambiamo ringraziamenti e promesse, poi, come travolto da un'altra ondata di ricordi, Alfredo mi fa: «Le bombe a mano, le abbiamo tirate in un' altra occasione». Eh no, adesso voglio sapere. «Nell'agosto '45 io, Martignon e altri abbiamo lanciato dei volantini dal Ponte Monumentale, e per fare più baccano abbiamo tirato una bomba a mano, ma di quelle italiane, quelle che facevano solo un gran botto. Non successe nulla di grave, volevamo protestare contro gli arresti e le violenze sui fascisti. Ma stavolta ci presero».
E qui la voce è decisamente venata dal disappunto. «Mi prese il comandante partigiano Mori, l'avvocato Merella di "Giustizia e Libertà", proprio il padre di Arcangelo, l'assessore al traffico delle giunte Pericu. Era un gran brava persona, sa, ex-ufficiale dell'Esercito in Grecia. Gli devo la vita, perché quella volta gli altri partigiani volevano farmi fuori, ma lui mi difese, armi alla mano. Ci portarono tutti in Questura, poi a Palazzo Ducale, poi a Marassi. Rischiammo grosso, perché le leggi ancora in vigore - fasciste - non scherzavano, e le nuove leggi speciali - antifasciste - erano pesanti».
Alfredo, il ragazzino con il gusto per i gesti eroici e folli, adesso è stanco e malato. Decido di salutarlo e rinnovo l'impegno a farmi sentire nei giorni seguenti.
Ripenso al suo racconto, a certi aspetti che sconfinano nel tempo, che passano cioè dalla guerra legittima al neofascismo. Il secondo mi interessa molto meno. Sarà tutto vero? O anche lui è uno dei tanti mitomani con i quali non si smette mai di fare la tara?
Nei giorni seguenti chiamo al suo numero. Nulla. Richiamo altri giorni dopo, sempre nulla. L'amico comune mi parla di lui molto provato da acciacchi vari. Riprovo senza successo. Ma nel frattempo trovo ampie tracce della sua testimonianza nel volume «A destra della Città Proibita» di Piero Vassallo e Sergio Pessot (ed. Asefi, Milano 2004). Sollievo, Alfredo Oppicini esiste e non è un mitomane. C'è pure una sua foto. Ma al telefono non risponde.
4 agosto 2009. Lo credo che non risponde. Alfredo, senza che io potessi vederlo di persona, stringergli la mano, risentire dalla sua viva voce il racconto di quei giorni, se ne è andato, vinto da una malattia, dall'età. Chiedo conferma, sì è morto proprio ai primi giorni di questo mese. Inutile evocare il destino, le sue beffe, è andata così. Alfredo Oppicini, uno dei giovani franchi tiratori fascisti che presero a fucilate il nemico in via Venti Settembre, anzi, l'ultimo di loro, non c'è più e basta. Penso alla sua prima - e unica - telefonata. È giunta in extremis, come lo fu anche la sua guerra, come lo furono le fucilate dai tetti a tempo scaduto, che non gli valsero né gloria, né medaglie, ma solo la nomea un po' sinistra di franco tiratore.
Non era pentito, ma non era vissuto come se niente fosse. Il suo gesto non ha cambiato la Storia, ma la sua vita, certo sì. Perché si trattò di portarsi dietro per sempre un fatto durato solo due minuti. La baldanza e il cinismo, sono vestiti che si indossano. Sotto, deve esserci stata in realtà una vita a tratti non facile, quella militanza totale che un po' avvelena. Ma ora, dopo aver saputo dell'articolo che parlava anche di lui, sembrava soddisfatto e lusingato.

E così dev'essersi addormentato, come un ragazzino, pago di sapere che quella volta, lui, gli americani li ha fermati, e che adesso qualcuno lo sa.

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