Quella sedia elettrica al luna park

C’è la figlia quattordicenne di una mia amica che sul comodino ha come libro cult un romanzetto o un fumetto il cui titolo è tutto un programma: Morti, ma non sepolti... Se vai a vedere le classifiche dei film più amati dai teen-ager scoprirai che più ci si sbudella, si frigge l’avversario, lo si schiaccia o lo si prende a martellate, e più riscuotono successo... A me i film dell’orrore hanno sempre fatto schifo, fin da piccolo, ma non faccio testo, ero un disadattato già allora: oggi vengono guardati dai bambini alla tele o al cinema con contorno di popcorn e qualche urletto di eccitazione se il sangue schizza troppo all’improvviso...
Non mi scandalizzo, insomma, né mi turbo, all’idea che al Lunapark dell’Idroscalo ci sia la fila per vedere l’esecuzione di un manichino sulla sedia elettrica... Mi colpisce di più quella foto, che ha fatto il giro del mondo, in cui i cadaveri di due ragazzine giacciono su una spiaggia italiana coperti da un telo e intorno c’è chi continua a prendere il sole, il trionfo della morte come rimozione. Posso sbagliarmi, ma c’era più umanità nelle tricoteuses della Rivoluzione francese che sferruzzavano mentre la ghigliottina faceva il suo lavoro.
Il problema non è tanto o solo la società dello spettacolo, il voyeurismo adolescenziale e tutte quelle cose lì su cui noi giornalisti pontifichiamo un tanto al chilo. È una cosa più sottile e riguarda proprio il nostro rapporto con la morte, quello che già trent’anni fa lo storico Philippe Ariés illustrò in un saggio magistrale che si chiamava, appunto, La Morte e l’Occidente. Vediamo di capirci, e di spiegarci.
Gli antichi non avevano paura della morte: ne erano in familiarità e l’accettavano come logico evento. Era naturale, insomma, si annunciava da sola e il malato sapeva che presto avrebbe cambiato di status. A meno che non fosse improvvisa la Morte sempre per molti segni si faceva notare. E non restava che prenderne atto. Il prode Orlando, colpito a Roncisvalle, «sente che la morte lo prende tutto». Lo sfortunato Tristano «sentì che la sua vita si perdeva, comprese che stava per morire». Agli amici e compagni di tanti cimenti, Galvano dice: «Sappiate che non vivrò altri due giorni». È un atteggiamento che si perpetua nei secoli. Madame de Montespan dà le disposizioni alla servitù e convoca gli amici sentendo la morte vicina. Tolstoj ne I tre morti narra di un vecchio vetturale che, interrogato sulla sua salute, semplicemente risponde: «La morte mia è arrivata».
Quando il malato non è certo della gravità del male, è il medico che ovvia a una tale ignoranza. Cervantes lo mette al capezzale del povero Don Chisciotte: «Gli tastò il polso e non rimase troppo soddisfatto, anzi disse che, a scanso di guai, pensasse ad assicurarsi l’anima, perché secondo lui c’era pericolo». Nel XV secolo le Artes moriendi prevederanno che questa successiva «incombenza» spettasse all’amico «spirituale», chiamato nuncius mortis, così, senza troppe perifrasi.
La Morte non era solo di proprietà del morente: quest’ultimo la «gestiva» come «presidente» e la concludeva come «festeggiato». Si moriva in pubblico: stanze piene di amici e parenti, illuminate a giorno con lampade a olio e ceri, perché porte e finestre erano rigorosamente chiuse. Se per strada s’incontrava il frate che si avviava al capezzale con il viatico, il passante tranquillamente lo seguiva sin dentro la casa del moribondo, come fosse una pubblica cerimonia. Nemmeno i bambini mancavano allo «spettacolo»: anche per essi era un fatto naturale.
Trasferito al cimitero, il morto non rimaneva solo. Nel 1231 il concilio di Rouen proibiva le danze fra le tombe. Due secoli dopo, nel 1405, la proibizione si estendeva ai giochi di prestigio, alle imitazioni, agli esibitori di maschere, ai venditori ambulanti. Nel Journal d’un voyage à Paris, che è del 1657, ancora ci si lamenta di trovare «scrivani pubblici, cucitrici, librai, rivenditrici di abiti usati», tutti lì mentre si apre una tomba, si porta via un cadavere, si procede a un’inumazione.
Sino grosso modo al XVII secolo, la morte è un fatto umano che il morituro «gode» totalmente e che altresì fa «godere» alla comunità. Non vi sono sotterfugi, non si amano le menzogne, non esistono medici pietosi. La morte è di proprietà privata, e a nessuno è consentita l’espropriazione. Tra la fine del ’600 e il nuovo secolo che appare, qualcosa cambia, pur se qui e là il cambiamento era già avvertibile: da una morte né temuta né amata, ma soltanto accettata, si passa a un qualcosa fra il macabro e l’erotico. «L’uomo non può più guardare in faccia né il sole né la morte» annoterà La Rochefoucauld, e quindi deve inventare un nuovo rapporto con la stessa. Sottratta al quotidiano e trasferita nell’immaginario, può divenire erotica e instaurare una nuova sensibilità: «Bara e alcova - scriverà Baudelaire - vi offrono, come buone sorelle, piaceri terribili e paurose dolcezze». La morte, la carne, il diavolo, per dirla con Mario Praz che di quella sensibilità erotica si farà storico, appaiono in prima persona e cercano di vincere le paure della dissoluzione in una universale fornicazione.
La Morte come raffigurazione in disegni, incisioni, pitture, sculture, già rarissima nel XIX secolo, scompare quasi del tutto nel corso del Novecento. Il ciclo si chiude. Alla morte familiare e privata, di cui l’unico arbitro era lo stesso protagonista, si sostituisce, lenta ma costante, l’idea che morire sia «osceno», anti-umano e quindi da tenere nascosto e/o lontano. È dapprima la famiglia che sostituisce al nuncius mortis, una sorta di nuncius consolationis, e cioè di mentitore. L’affetto nega al morente di sapere che morrà: lo si vezzeggia, lo si coccola nell’illusione di recargli conforto. Si muore di nascosto, quasi fosse una colpa.
Così, nel corso dei secoli, la morte da familiare ci è divenuta dapprima estranea, poi nemica, ma una nemica di cui si finge di ignorare potenza ed esistenza, come se il solo pensiero recasse turbamento. Oggi, semplicemente, il posto per la morte non c’è. Però non se ne può fare a meno, e questo terrorizza chi crede se stesso centro dell’universo e inarrestabile fonte di progresso. E terrorizza una società che per voler eliminare dalla vita dolori, inquietudini, amarezze, delusioni, ha finito per essere totalmente priva di anticorpi. Inoltre, il rifiuto della morte non arriva a essere un atto di sovrumano coraggio, l’affermazione di una forza che non cede al fato e al corso delle umane cose. Al contrario, si presenta come una fuga dalle responsabilità individuali, un non voler accettare la realtà per quello che è, un no a tutto quanto provoca dolore e crea stati d’animo per affrontare i quali ci vorrebbe personalità e fierezza. L’attaccamento alla vita diviene morboso, la ricchezza materiale il passaporto che si esibisce per «non dover morire» e su tutto grava opprimente il silenzio su colei che non si deve nominare. «Come siete pressante o dea crudel» si ironizzava nei secoli passati.

Ora, non si ironizza più: la morte è un altro da sé e va tenuta segreta per non turbare gli interessi dell’umana collettività. Ci si può però indignare per un manichino messo a morte su una simil-sedia elettrica...

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