«Questa città deve riscoprire la sua vocazione artistica»

Luci e ombre della città. Il conte Paolo Marzotto, classe 1930, è membro dell’omonima azienda tessile «Manifattura Lane Gaetano Marzotto & Figli spa», ma anche il presidente fondatore dal 1989 dell’Arpai, l’associazione per il restauro del patrimonio artistico italiano. E può illustrare nel dettaglio, da un punto di vista culturale, urbano, artistico e sociale, pregi e difetti di Milano.
Presidente, quali strutture e opere d’arte pubbliche hanno bisogno di una ristrutturazione?
«Milano ha un tessuto monumentale di grandissimo rilievo, sia per la parte ecclesiastica che civile, per i musei di ogni tipologia e per la concentrazione di edifici pubblici, privati e religiosi di grande rilievo architettonico e storico, capaci di evocare emozioni e sorprese estetiche che contribuiscono ad includerla tra le città più belle d’Italia. Il suo potenziale economico avrebbe dovuto far crescere di pari passo il suo spessore artistico, magari rigenerando quei poli culturali, come il quartiere di Brera, che sono assolutamente seducenti anche per un visitatore un po' distratto. Ecco, proprio la Pinacoteca dovrebbe risolvere l’annosa questione della sua separazione dall’Accademia, e concedere al Museo di adeguarsi ai criteri moderni di accessibilità e di riordino delle collezioni, una revisione radicale dello spazio espositivo oltre che dei sistemi di illuminazione, condizionamento e tutela».
Quale giudizio darebbe invece agli «abbellimenti» urbani di Milano?
«Non so se si possa parlare di abbellimenti urbani e se ne sono stati realizzati, non mi pare facile né vederli né compiacersene. Negli ultimi 30 anni, a Milano tutti i monumenti sono stati inseriti con una logica da città di provincia, e non di vera capitale d’arte, come la città meriterebbe. Forse si salva l’ago e il filo di Piazza Cadorna, anche se chiamare Oldenburg negli anni Novanta era un gesto che arrivava con un trentennio di ritardo. Ma tant’è, i milanesi l’hanno adottato. Nessuna amministrazione si è posta il problema del coinvolgimento dei cittadini nella scelta degli interventi di arredo urbano o di quei monumenti che potrebbero integrarsi nel tessuto di una città a modo di un Museo all'aperto».
Milano ha una lunga tradizione di città d’arte e di artisti. Condivide?
«Certo, non solo nel passato remoto, ma anche nei secoli recenti e nel periodo del dopoguerra, che ho vissuto direttamente, soprattutto nell’epoca degli anni Sessanta e Settanta, quando Milano era una vera capitale artistica. Ci si veniva non solo per incontrare i giovani artisti e quelli affermati che operavano lì, ma anche i grandi artisti stranieri in visita. Poi si è voluto privilegiare una “vocazione" di città degli affari, della moda, e si è trascurata quella che era la sua dimensione di città dall'anima complessa, polo di attività culturali e di affari, città della grande musica, del teatro, una città che nell'Ottocento era stata una capitale artistica molto più vivace di altre paragonabili in Europa, un foyer intellettuale stimolante».
L’arte riesce ancora a trovare spazi che non siano quelli imposti dal business e dal mercato?
«Non c'è incompatibilità tra arte e affari, la questione è che non dovrebbero essere gli affari il movente principale o unico dell'arte. Il committente degli artisti è sempre stato un rappresentante del potere, si veda l'esempio che ci danno i secoli. Potere economico, civile, della chiesa, tutti i poteri hanno esercitato un ruolo d'azione e di distinzione. Il male sta quando il committente determina ed esercita uno "strapotere" sugli artisti, condizionandone la scelta e perfino l'ispirazione o, talora, inventandosi artisti che hanno troppo poco da dire e che sono relegati ad essere strumenti di affermazione del potere a prescindere dal contenuto o dalla forma della loro creazione».
Quali sono per lei i luoghi e i monumenti che più di altri evocano lo spirito della città?
«Io amo moltissimo la Basilica di Sant'Ambrogio, è un luogo che mi affascina e mi coinvolge emotivamente. La cappella Portinari a Sant'Eustorgio è un altro dei miei luoghi preferiti o il chiostro delle Grazie. L’Arpat da oltre vent'anni si impegna per la tutela del patrimonio pubblico o talvolta privato ma accessibile alla visita del pubblico, insieme a circa duecento soci italiani e stranieri che contribuiscono a reperire fondi per il restauro di opere in pericolo per la loro conservazione. Abbiamo oltre 160 interventi in attivo, sparsi per l'Italia e uno è allo studio per il teatro Litta, il più vecchio di Milano. Andremo prossimamente a visitarlo per approfondire la situazione e vedere se sarà possibile».
Chi sta mostrando maggiore creatività nel design italiano?
«Milano è tuttora la capitale del design, checché ne dicano alcuni detrattori, e ha dato i natali ai padri del design contemporaneo. Cito Albini, Bellini, i Castiglioni, Frattini, Gae Aulenti, Gardella, Giò Ponti, Magistretti, Mangiarotti, Mari, Mendini, Sottsass, Zanuso, e poi Branzi, Citterio, De Lucchi. Quando dico Milano, mi riferisco ad un territorio di cui la città è il baricentro, compreso tra Crusinallo e Bovezzo, ricco di tradizioni artigiane che vengono da lontano, dai tempi in cui le Signorie a quel tempo imperanti e gli eserciti di altri Paesi europei che venivano a guerreggiare chiedevano armi e suppellettili di alta qualità».
Lavorare a Milano, per chi si occupa di cultura, ha dei vantaggi secondo lei?
«Io non lavoro fisso qui, ma vengo spesso e mi ci trovo bene.

Milano è ancora una città molto viva: ha gallerie d’arte vivaci, manifestazioni culturali nei settori della musica, dell’architettura, del teatro, della moda, del design, dell’artigianato e di tutte le attività pratiche dell’ingegno umano, fra cui una ricerca puntigliosa ed aristocratica di rielaborare la cucina tradizionale meneghina. Tutte condizioni che fanno di Milano un posto privilegiato per lavorare in qualsiasi campo».

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