Leggo, sul settimanale Vita nel numero del 16 febbraio, una bella intervista a uno dei nuovi maggiorenti di Milano, il sacerdote don Virginio Colmegna, fondatore della Casa della Carità, voluta dallarcivescovo Carlo Maria Martini per coniugare la risposta alle emergenze sociali con lideazione di strategie, affinché laffronto della questione sociale non resti allo stadio assistenziale ma diventi il principio propulsore dello sviluppo stesso della città.
Nonostante una certa difficoltà nella comprensione dei termini un po troppo politichesi, il concetto espresso è ricco di stimoli e suggerimenti e ci indica un possibile destino dellazione sociale cristiana nella realtà caotica delle nostre città odierne.
Giustamente, don Virginio Colmegna attacca un vizio di Milano, che è quello di crogiolarsi «in una cultura descrittiva dei problemi, senza una cultura risolutiva dei problemi». Verissimo. La famosa operatività milanese, incapace di rinnovarsi di fronte alle nuove sfide poste dalla storia, si è ridotta spesso a scetticismo e rimpianto.
La cultura di una città è viva solo nellazione con cui risponde, qui e ora, al dramma di quelle sfide, rischiando se stessa. Da quello che capisco (e se ho capito sono assolutamente daccordo), don Colmegna invita a una rimessa in discussione del modo in cui le diverse competenze (imprenditori, immobiliaristi, giornalisti, banchieri, intellettuali eccetera) si esprimono socialmente.
Bisogna che la risposta ai bisogni sociali sia un fattore che interroga e investe gli operatori nel cuore del loro lavoro, non nel dopolavoro. Il mecenatismo non è che laltra faccia dellassistenzialismo.
Una sola avvertenza: è meglio essere prudenti quando il discorso scivola sul piano delle strategie complessive. I nostri discorsi, ricorda il grande Michel Foucault, sono azioni di potere e il loro ordine, fatto di inclusioni ed esclusioni, è anche un ordine politico, con amici e nemici.
Ma, in un caso come questo, nessun soggetto può essere escluso a priori: «amico» non è più chi la pensa come noi, ma chi si gioca tutto in questa avventura, che è il futuro, pronto a «imparare qualcosa di completamente nuovo» (Ludwig Wittgenstein).
Sì, perché se si parla di futuro, è inevitabile che il cuore della partita si giochi sullimparare, ossia sulleducazione. Lo metta in agenda, don Virginio. Senza educazione, lo sviluppo è più che altro una chiacchiera tra potenti.
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