Pace, pace, pace. È la parola che Sergio Mattarella ripete più volte, è quasi un mantra, un regalo di Natale, forse un esorcismo visto che l’Ucraina è ancora sotto attacco, comunque è una «sfida» da raccogliere, uno «spiraglio da coltivare» adesso che c’è uno straccio di trattativa in piedi. Però attenzione, pace non significa arrendersi a Putin, ma far «prevalere il diritto sulla forza delle armi». E siccome «i rischi sono concreti», serve «uno sforzo convergente» in Ue e in Italia per «definire una nuova strategia di sicurezza»: la spesa per la difesa, dice il capo dello Stato, sarà pure «poco popolare», tuttavia «ora è necessaria». Destra e sinistra, europeisti e euroscettici, non è questo un tema su cui ci possa dividere. L’obiettivo è la «pace permanente», come la definì Franklin Delano Roosevelt.
L’altra parola ricorrente, nel discorso del presidente alle alte cariche della Repubblica, è democrazia.
Un modello che ci guida da quasi un secolo che «oggi appare sfidato da Stati sempre più segnati da involuzioni autoritarie che, contro la storia, si propongono come sistemi alternativi». Zar e despoti che «cercano di cancellare il confine tra libertà e arbitrio» e che «pretendono di rimuovere limiti ai comportamenti». Tecnologie, guerre ibride, hacker, droni, spionaggio, manipolazione delle opinioni pubbliche. «Vogliono travolgere i nostri ordinamenti. Ma la democrazia è più forte dei suoi nemici, soprattutto dove è costata sacrificio».
In questo quadro, spiega Mattarella, è centrale il ruolo di Bruxelles, che l’altra notte ha finalmente dato un segno di vita approvando all’unanimità il maxi prestito a Kiev. «Soltanto la Ue può garantire il nostro futuro», da soli non si va da nessuna parte. E nemmeno senza Washington. L’anno scorso le celebrazioni per gli ottant’anni dello sbarco in Normandia hanno mostrato «il significato profondo della pace che l’Europa ha costruito coltivando la relazione transatlantica». Un «patrimonio irreversibile» dei popoli da «tutelare in ogni maniera».
Certo, ammette il capo dello Stato, nemmeno il nostro è un sistema perfetto. Ora la malattia si chiama disaffezione. «Una democrazia di astenuti, assenti, rassegnati è più fragile e a subire danno sono i cittadini». I partiti si facciano qualche domanda. «Riflettere è dovere di tutti, invece...». Ad allontanare la gente «è la politica dello scontro». Basta risse. Legittimo che ognuno abbia la sua agenda, però oltre la dialettica dovrebbero esserci alcuni «obiettivi condivisi per il bene dell’Italia e delle prossime generazioni».
Chiude con l’economia.
Ci sono «dati rassicuranti» anche se cinque milioni di persone vivono sotto la soglia della povertà. Migliora l’occupazione però non per giovani e donne. Luci e ombre insomma, ma il Paese ce la può fare.