Il razzismo spiegato con le barzellette

Ai ragazzi racconta la sua vita. «Il fatto di essere medico mi ha aiutato. Con il camice indosso sembri più bianco»

Il razzismo spiegato con le barzellette

«Ha presente i dialoghi in ascensore? Quando ci si guarda imbarazzati la punta dei piedi e la frase più brillante è “non ci sono più le mezze stagioni”. Ecco, penso che il problema di oggi non sia l’immigrazione, piuttosto l’incapacità di comunicare. Un’economia della mente che porta all’isolamento». Kossi Komla-Ebri esplode in una risata portentosa. Lo incontriamo all’Itis Torricelli in via Dini, l’Istituto tecnico industriale a Milano. Ha appena finito una lezione sull’interculturalità e il dialogo. I ragazzi lo seguono con attenzione, del resto lui, da buon comunicatore, sa come prenderli. «Se ti metti a parlare in modo accademico quelli scappano - ride -. Se serve, uso le barzellette per far capire un concetto». E lo fa anche quando parla di razzismo, un tema spinoso che affronta pragmatico: «Indubbiamente ci sono casi di razzismo inqualificabili - dice -. In altri casi si tratta per lo più di forme di imbarazzo legate a un modo convenzionale di percepire gli altri, piuttosto che di un reale disagio nei confronti del “diverso”».
Nato in Togo nel 1954, Kossi Komla-Ebri approda in Italia nel 1974 dopo i primi studi in Francia. Si laurea in Medicina a Bologna, si specializza in Chirurgia generale a Milano e oggi lavora in un laboratorio di analisi presso l’ospedale Fatebenefratelli di Erba. È sposato con una lombarda, ha due figli adolescenti e si definisce un fritto misto di culture: africana, francofona, italiana e brianzola: «Così la vita è più varia - osserva - non si può passare la vita a mangiare cous-cous o cassoeula. Ogni tanto bisogna variare». Al di là delle battute, il dottor Kossi conosce fin troppo bene la situazione di chi, come lui, ha dovuto affrontare resistenze prima di riuscire a integrarsi in una società non sempre benevola con lo straniero. Il fatto di essere un medico in qualche modo lo ha messo al riparo: «Il camice bianco mi fa un po’ più bianco - scherza -. I pazienti non vedono il colore, ma il medico. Ma fuori le cose cambiano: capita che la “sciura” di turno stringa un po’ di più la borsetta quando mi vede».
Esercitare la professione tuttavia non è stata una passeggiata: dieci anni di attesa del riconoscimento della cittadinanza italiana e altrettanti per iscriversi all’albo dei medici. Un percorso pieno di ostacoli che il dottore ha descritto in una serie di aneddoti fulminanti, raccolti in due volumi («Imbarazzismi», Ed. Dell’Arco-Marna). Perché oltre a esercitare la professione di medico e saltuariamente di insegnante nelle scuole, riesce a trovare il tempo per scrivere: non a caso è diventato il più lombardo e conosciuto tra i nuovi autori africani, abilissimo nell’usare l’umorismo per sdrammatizzare. E far riflettere. Un esempio? «Un giorno Charles, un mio amico togolese, sposato con una ragazza italiana, portava a passeggio i suoi due figli piccoli. Incrociarono due signore anziane. Una di loro, mossa da compassione mormorò: “Oh, por diavül, ga tucà fa ül baby-sitter!”».


In tutti i suoi libri - l’ultimo, Neyla, è stato tradotto in Usa e sta per uscire in Spagna - il dottore esprime il concetto di pluralità di un mondo sempre più multietnico: «Un mondo che non è un frullato dove tutto si mescola, bensì una macedonia dove il gusto di ogni singolo frutto contribuisce a esaltare il sapore finale». Parola dello straordinario dottor Kossi.

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