Tempi duri per i riformisti: anzi, tempi durissimi. Il «nuovo vento» che spira impetuoso da Milano e da Napoli, e che spinge una parte consistente della sinistra a considerarsi autosufficiente e già vittoriosa, ha mietuto la prima, autorevolissima vittima: il segretario del Partito democratico. Che nel 2008 a Carpi difendeva, giustamente, la privatizzazione parziale dell’acqua e l’anno prima, non meno giustamente, rassicurava il ministro dell’Energia americano sull’intenzione del governo Prodi di non archiviare «i piani nucleari dell’Italia». E che oggi, invece, è schierato (chissà quanto convintamente) per il «sì» ai referendum di giugno.
Il 13 novembre 2007 Bersani, allora ministro dello Sviluppo nel secondo governo Prodi, incontra il ministro dell’Energia americano Samuel Wright Bodman (alla Casa Bianca c’era Bush jr.). Il verbale dell’incontro, cui partecipò anche l’ambasciatore Richard Spogli, è diventato pubblico grazie a WikiLeaks, e ci descrive un Bersani intento a tranquillizzare gli americani sul fatto che «il referendum del 1987 ha soltanto sospeso e non chiuso i piani nucleari dell’Italia» e che - secondo le parole dell’appunto riservato - «Italy is not out of nuclear power generation». A conferma del fatto che le centrali restano nell’orizzonte del governo italiano, Bersani in quell’occasione sigla con Bodman il «Global nuclear energy partnership», un trattato bilaterale Italia-Usa per avviare proficui scambi d’informazioni sull’energia nucleare civile. L’accordo, conclude soddisfatto Bersani, «può giocare un ruolo importante nel modificare l’atteggiamento italiano nei confronti dell’energia nucleare».
Giusto un anno dopo, il 28 settembre 2008, Bersani è a Carpi per sostenere le ragioni della privatizzazione di Aimag, la società che gestisce acqua, gas e rifiuti in una ventina di comuni fra Modena e Mantova. L’argomentazione del futuro segretario del Pd è come sempre pacata, ragionevole, convincente. È vero, dice, che l’acqua è un «bene comune», ma è anche vero che «gli acquedotti italiani perdono metà dell'acqua che trasportano». È dunque ragionevole che le infrastrutture restino di proprietà pubblica, a garanzia degli interessi della collettività, ma è altrettanto ragionevole che queste infrastrutture siano gestite al meglio: «Come faccio - si chiede Bersani - a perdere meno acqua, a depurarla meglio, a investire bene i soldi pubblici? Devo chiamare uno che sa fare quel mestiere lì... È tutto qua il tema!».
Cambiare opinione è legittimo, e per un politico in certi casi è persino doveroso. Ma qui l’impressione del tatticismo, della strumentalizzazione, dell’opportunismo politico è fortissima, perché è l’intera biografia politica e civile di Bersani - e non soltanto i due interventi appena ricordati - a smentire l’oltranzismo ideologico con cui il Pd si appresta ad affrontare due referendum che, oltre tutto, non gli appartengono affatto: quelli, appunto, sull’acqua e sul nucleare. Bersani è uno dei pochissimi uomini di governo, se non l’unico, che ha praticato con successo un’autentica politica di liberalizzazioni; l’Emilia-Romagna da cui proviene, e che ha ben amministrato per anni, trova proprio nelle continue partnership fra pubblico, privato e cooperazione una delle ragioni essenziali della sua ricchezza, della sua efficienza e della sua qualità della vita.
Che cosa è dunque successo? Che nella costruzione della nuova «gioiosa macchina da guerra» che dovrebbe sconfiggere il Cavaliere, il referendum, dopo le amministrative, è diventato un tassello essenziale: il luogo cioè dove simbolicamente si saldano radicalismo, statalismo, fondamentalismo antimoderno e giustizialismo. Che importa se la legge sul legittimo impedimento è stata già stravolta dalla Consulta, se il governo ha già sospeso il programma nucleare, se l’acqua pubblica significa storicamente spreco e lottizzazione: l’importante, adesso, è dare la spallata a Berlusconi. Tutti insieme, appassionatamente.
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