Referendum in Turchia: riformata la Costituzione. Tolto il potere ai militari

Con il 58% di sì al referendum passa la riforma della Carta ispirata ai princìpi di Kemal Ataturk. Adesso potranno essere processati pure gli alti gradi delle forze armate responsabili di azioni antidemocratiche

Referendum in Turchia: riformata la Costituzione. Tolto il potere ai militari

Lo chiamano referen­dum, ma è uno scacco matto in 26 mosse. È l’affondo finale sancito da una maggioranza che sfiorava il 59 per cento, del premier Recep Tayyip Erdo­gan alla Turchia laica dei gene­rali.

È l’ultima decisiva mossa di una partita iniziata nel 2002 e conclusasi con laliquidazio­ne di un’era durata 87 anni. In­fatti il primo ministro ha det­to: «Siamo a una svolta nella storia democratica del Pae­se ». La vittoria dei sì nel refe­rendum per l’emendamento della costituzione di Ankara consegna definitivamente al­la storia la Turchia secolarista fondata da Mustafa Kemal Ata­turk, apre la strada all’ambi­guo pro­getto di Turchia neo ot­tomana sognata dal primo mi­nistro turco e da Ahmet Davu­toglu, il ministro degli Esteri considerato l’eminenza grigia dell’esecutivo di Ankara.

La ve­ra vittoria di Erdogan non con­siste tanto nell’archiviazione di un modello di Stato ormai obsoleto quanto nella sofisti­cata manovra politica messa in campo per legittimarne la li­quidazione. I 26 emendamen­ti costituzionali proposti dal governo non intaccano a pri­ma vista la natura antica della Costituzione, non si scagliano contro il secolarismo di Atatu­rk, non propongono un nuovo modello di nazione. Ufficial­mente sono emendamenti de­mocratici, liberali e piena­mente condivisibili, riforme indispensabili per sanare quell’obbrobrio di costituzio­ne lesiva di diritti e libertà per­sonali imposta dopo il golpe del 1980 dal generalissimo Ke­nan Evren.

Grazie a questa candida apparenza gli emen­damenti sembrano aprir la strada a una svolta agognata e partecipata. Non a caso il refe­rendum ottiene non solo l’im­primatur dell’Unione Euro­pea che lo definisce un passo indispensabile per l’avvicina­mento a Bruxelles, ma anche di molti intellettuali pronti, in altre occasioni, a condannare Erdogan e i ministri del Partito della Giustizia e dello Svilup­po spesso sospettati di prepa­rare la transizione a un model­lo di stato nazional religioso.

Stavolta gran parte dello schie­ramento liberal democratico condivide l’orientamento del­­lo scrittore Orhan Pamuk, pro­tagonista di una dichiarazio­ne di voto che suona come un totale e incondizionato soste­gno al sì. «Voterò sì - dice Pa­muk- perché, come tante per­sone qui, non voglio più colpi di stato....perché vorrei che la Turchia diventasse una socie­tà ... un Paese che non deve vi­vere sotto la minaccia di gol­pe ».

Propositi nobili, ma an­che assolutamente indispen­s­abili per consentire a quel vol­pone di Erdogan di far piazza pulita dell’ultimo gruppusco­lo di generalissimi e alti magi­strati pronti a negargli il pieno controllo delle istituzioni. La Costituzione del 1980 seppur assolutamente indi­fendibile da chiunque non prediliga un modello autorita­rio, conteneva gli ultimi anti­corpi capaci di garantire la so­pravvivenza del modello laico e secolarista. Gli alti magistra­ti cooptati dai militari e sem­pre p­ronti a difenderne o a giu­stificarne le mosse rappresen­tavano, nel bene e nel male, l’ultimo barriera capace di ar­ginare l’irresistibile ascesa di una leadership apparente­mente moderata che non ha, però, mai rinnegato il proprio passato islamista.

I 26 articoli cancellati ieri erano l’ultimo, estremo intralcio a un manda­to po­polare votato da una mag­gioranza ormai largamente estranea al modello laico di Ataturk e pronta, seppur con sfumature diverse, a rivendi­care l’identità di nazione isla­mica. Se alla vittoria referendaria seguirà il prossimo anno una terza vittoria elettorale Erdo­gan e il Partito della Giustizia e dello Sviluppo avranno tutte le carte in regola per dar forma al sentire che li lega ai loro elet­tori.

Un sentire che inquieta non poco gli Stati Uniti e un’Al­leanza Atlantica abituata a considerare Ankara l’ultimo baluardo alle porte dell’Iran e del Medioriente.

Un sentire in parte anticipato dalle recenti mosse di una Turchia che- do­po aver rotto i ponti con Israe­le e aver appoggiato la spedi­zione su Gaza di una nave di fondamentalisti travestiti da pacifisti – ha negato il suo so­stegno alle sanzioni contro il nucleare iraniano votate dal­l’Onu.

Da qui a dire che la vitto­ria del sì porterà Ankara nella braccia di Teheran ce ne pas­sa.

Di certo però grazie al voto di ieri Erdogan potrà muover­si più liberamente sia sul pia­n­o interno che su quello inter­nazionale. E non rischierà più di ritrovarsi delegittimato dal­le mosse di una Corte costitu­zionale che nel 2008 per un so­lo voto non riuscì a dichiarare incostituzionale il suo partito e l’esecutivo da lui guidato.

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