La guerra, quando arrivava, non lo trovava mai impreparato: Peter Arnett era già lì, con le parole pronte e il sangue freddo necessario a raccontarla. Se n'è andato a 91 anni uno dei grandi testimoni del Novecento, un giornalista che ha fatto della presenza sul campo una forma di rigore morale prima ancora che professionale. Premio Pulitzer per il giornalismo internazionale nel 1966, Arnett ha attraversato mezzo secolo di conflitti armati senza mai cedere alla tentazione della distanza comoda, scegliendo piuttosto la linea sottile che separa il racconto dalla paura. Il suo nome è legato per sempre al Vietnam, dove arrivò all'inizio degli anni Sessanta per l'Associated Press e rimase fino alla caduta di Saigon. Furono anni in cui il giornalismo si imparava camminando nella giungla, schivando colpi, annotando morti che avevano ancora un volto e una storia. In uno di quei giorni, accanto a un comandante americano che stava consultando una mappa, Arnett vide la guerra esplodere a pochi centimetri dal suo viso: quattro colpi secchi, una vita spezzata, il dovere di raccontare senza enfasi e senza retorica. Era il suo stile, già allora. In quella Saigon affollata di grandi firme e grandi fotografi, Arnett affinò un mestiere che sarebbe diventato vocazione. Imparò a sopravvivere, certo, ma soprattutto a guardare: a capire dove posarsi e dove no, a distinguere il rumore dalla notizia, l'eroismo dall'umanità.
Per molti anni rimase un punto di riferimento soprattutto per i colleghi. Poi arrivò Baghdad, gennaio 1991, e il suo volto entrò nelle case di mezzo mondo. Mentre quasi tutti i reporter occidentali lasciavano la città, Arnett restò. Dalla stanza di un hotel, con un telefono cellulare e una calma disarmante, raccontò in diretta l'inizio della prima guerra del Golfo. Le sirene sullo sfondo, le esplosioni vicine, la voce pacata con un leggero accento neozelandese: non c'era spettacolo, solo cronaca pura, nel momento stesso in cui accadeva. Non fu un'eccezione, ma la conferma di una carriera costruita sull'idea che il giornalismo, per essere credibile, deve esporsi.
Dopo l'Associated Press e la Cnn, Arnett continuò a cercare la notizia anche quando questo significava attirarsi critiche, polemiche, sospetti. Intervistò Saddam Hussein e Osama bin Laden, pagò con dimissioni e licenziamenti la sua ostinazione nel raccontare ciò che vedeva, senza piegarsi alle letture più comode. Quando fu accusato di antipatriottismo, rispose lavorando ancora, altrove, come aveva sempre fatto. Negli ultimi anni insegnò giornalismo in Cina, quasi a chiudere il cerchio: trasmettere a una nuova generazione l'idea che il mestiere non è neutralità fredda, ma onestà intellettuale e coraggio civile. Prima di ritirarsi, e poi di spegnersi serenamente in California, Arnett aveva già consegnato tutto ciò che contava: storie, archivi, esempi.
Era nato in Nuova Zelanda, aveva iniziato in una piccola redazione di provincia e non aveva mai dimenticato quella
sensazione, enormemente deliziosa, di aver trovato il proprio posto. Quel posto, per lui, è sempre stato vicino ai fatti, il più possibile. Dove le bombe cadevano davvero, e le parole dovevano reggere il peso della verità.