Una "sana" risata fa miracoli e guarisce dai veleni della vita

Ritrovata una serie di appunti sul gesto del ridere: un problema che i pensatori affrontano da sempre

Una "sana" risata fa miracoli e guarisce dai veleni della vita
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La immagine di Jorge da Burgos, il monaco cieco de Il nome della rosa, con quei terrificanti bulbi oculari, sporgenti dalle orbite e bianchi come la neve, ha sempre evocato una profonda inquietudine. Nella nostra memoria, il volto di quel monaco rimane legato alla sua rigida condanna di uno degli atti più umani: il riso, che, come ribatte a Guglielmo da Baskerville, il protagonista del romanzo, "uccide la paura, e senza la paura non può esserci la fede". Privo di una vista che non è solo fisica, ma anche simbolica, quell'atto all'apparenza così innocente si trasforma in uno strumento subdolo e pericoloso, capace di minare la fede e sovvertire ogni autorità: "Le commedie erano scritte dai pagani per muovere gli spettatori al riso, e male facevano. Gesù non raccontò mai commedie né favole, ma solo parabole". Questo fanatismo così ottuso lo trasformerà in un omicida metodico, determinato a impedire la lettura del secondo libro della Poetica di Aristotele, che nella versione romanzata da Eco sarebbe interamente dedicato alla commedia e all'atto del ridere.

Quella contrapposizione con Guglielmo non è solo un espediente narrativo, ma allegoria di una discussione antica che, come un fiume carsico, emerge e scompare attraverso i secoli. Ippocrate e Galeno attribuivano al riso la capacità di produrre effetti positivi sulla salute, grazie alla produzione di sostanze benefiche per l'organismo. Gli Epicurei e i Cinici consideravano invece il riso come un mezzo per liberarsi dalle preoccupazioni, mentre Platone lo considerava un segno di ignoranza e superficialità; salvo poi, accortosi della sproporzionata severità della sua convinzione, rettificare parzialmente il giudizio nel Filebo.

Ai giorni nostri, sembra che il riso si sia liberato dal peso di una seriosità opprimente, sebbene, purtroppo, i suoi effetti restino non di rado legati a questioni fittizie, alimentate dall'ottusità del politicamente corretto, che ormai assume i tratti di un nuovo fondamentalismo. In fin dei conti, continuiamo a essere posti sempre di fronte a due interrogativi: perché ridiamo? È un comportamento da condannare o da incoraggiare?

A provare a dare risposte, quasi inconsapevolmente, è René Girard, attraverso un manoscritto inedito che ora viene riproposto da Raffaello Cortina Editore con il titolo originale Il miracolo del ridere. Benoit Chantre e la moglie di Girard scoprirono infatti queste settantotto pagine tra le sue scartoffie, portate con sé durante le sue peregrinazioni accademiche tra il 1952 e il 1957. Lo studioso le aveva inviate a Merleau-Ponty sotto forma di appunti organizzati, ma non ricevette mai risposta. In esse esplora le molteplici sfumature del riso, approfondendo al contempo "la genesi del riso e la presenza (dell'anima) al corpo solleticato" e, dunque, il tema della prima domanda. Si tratta però di un percorso che cerca di superare i tradizionali canoni della filosofia, affrontando la questione attraverso il linguaggio e la simbologia, principalmente, della letteratura. Con una notevole dose di ironia, ricerca quella che definisce la "verità letteraria", quasi a cercare di liberare l'analisi teorica dalla pedanteria.

Il riso, dunque, non è più un atto da decifrare in modo cavilloso e intraducibile, ma nemmeno qualcosa di totalmente superficiale. Girard lo descrive come un rebus, un'impresa complessa che diventa strumento per creare legami, e non solo causa di divisioni e "veleno mondano".

Dalla sua natura al solletico, fino al contagio della risata che può portare alle lacrime, non si propone come fattore di scissione, ma strumento per giungere a relazioni pacifiche, e rispondendo alla seconda domanda come un comportamento da incoraggiare.

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