Sansal e Daoud: le voci libere che fanno paura

Ecco i due nuovi romanzi degli scrittori algerini nel mirino del regime. Il primo è ancora in arresto

Sansal e Daoud: le voci libere che fanno paura

Negli anni '90, in Algeria c'è la guerra civile. Il presidente Bendjedid viene costretto a dimettersi, le fazioni che hanno preso il potere e i jihadisti combattono. I morti sono decine di migliaia. Forse cinquantamila, forse duecentomila, forse di più. Dieci anni di sangue e violenza fratricida. Quando gli algerini smettono di massacrarsi, Boualem Sansal ha più di cinquant'anni ed è un alto funzionario del ministero dell'Industria. È proprio la guerra civile a spingerlo a scrivere: «È stato il mio modo di impegnarmi politicamente e di denunciare quelli che avevano messo il mio Paese a ferro e fuoco, i militari e gli islamisti» ci raccontava nove anni fa, quando ha pubblicato 2084. La fine del mondo (un 1984 in versione islamista). Ed è così che segna il proprio destino. Un algerino che decida di sollevare il velo su quella guerra intestina, che nessuno ama ricordare e tanto meno raccontare, non ha vita facile. Ancora meno, un algerino che denunci i pericoli e le derive fanatiche e terroristiche dell'islamismo. E infatti Sansal perde il posto al ministero, sua moglie non può più insegnare, entrambi ricevono minacce. «Mi sono fatto dei nemici potenti, che non me la perdonano. Da allora la mia vita è difficile. Bisogna vivere con tutto questo» ci diceva, sempre sorridendo, i capelli svolazzanti nel cielo blu di Roma, l'aria di un saggio, lontano dalle meschinità e dalle brutalità degli uomini. Che infatti lo hanno arrestato, ed è dal novembre del 2024 che di Boualem Sansal non si hanno notizie: l'unica è stata la condanna a cinque anni di prigione, il 27 marzo scorso, per «attentato all'unità nazionale».

Il suo nuovo romanzo, Vivere. Il conto alla rovescia (edito come sempre da Neri Pozza, pagg. 222, euro 19) è come un grido lanciato dalla sua cella, da quel buco nero in cui vorrebbero relegarlo, come le dittature che ha descritto così bene nei suoi romanzi. Vivere è la storia di un piccolo gruppo di persone, i Chiamati, che hanno ricevuto un messaggio dagli alieni: entro 780 giorni la Terra scomparirà, sommersa da Terza guerra mondiale e cataclismi, ma un'astronave è già in viaggio, per mettere in salvo parte dell'umanità e ricostruire una Terranova nello spazio lontano. Il conto alla rovescia è ciò che resta ai Chiamati, in tutto il pianeta, per cercare di salvare l'umanità e la sua memoria.

La fine del mondo può essere anche metafora di quella di un singolo Paese, prigioniero di violenza, ideologia e censura? Può essere che quel Paese abbia bisogno di ricrearsi, come una nuova Terra, una società popolata da un'altra umanità e con una lingua nuova, che non sia un'arma della prevaricazione bensì l'espressione del benessere fisico e spirituale? E si badi come l'ipocrisia cresca rigogliosa anche in Europa: perfino nel mondo universitario, il protagonista, un professore francese, si ritrova a dover abiurare pubblicamente, autodenunciandosi quale colpevole uomo bianco, secondo i dettami del woke; perfino la scuola, primo e fondamentale passaggio per la formazione di questa umanità, è travolta da ombre, affari, ingerenze statali, «traditori e mercenari»...

Ad ogni modo, quella guerra civile che ha portato Sansal a diventare un pericolo pubblico, è la stessa che racconta Kamel Daoud in Urì, il romanzo con cui lo scorso anno ha vinto il Premio Goncourt (e ora pubblicato da La nave di Teseo, pagg. 438, euro 22). Daoud ha vent'anni meno di Sansal ma lo stesso destino segnato: infatti sarebbe dovuto venire in Italia per presentare il suo libro, ma non ha potuto, perché rischiava di essere arrestato. Urì è la storia di Alba, una ragazza con degli occhi meravigliosi e un corpo sensuale, che gestisce un salone di bellezza a Orano, in Algeria. Si veste come vuole, fuma, sfida l'imam della moschea di fronte al negozio con la sua libertà. Alba è il suo secondo nome, quello della sua nuova esistenza da sopravvissuta. Il 31 dicembre del 1999, nel suo villaggio, in una sola notte vengono massacrate mille persone. Islamisti e militari, anche allora. Padri, madri, figlie, figli, nonni, nonne: tutti sono stati sgozzati come montoni sacrificali. Solamente Alba si è salvata, fingendosi morta: sua madre, un avvocato - una donna che fa rispettare la legge in un Paese che schiaccia le donne - l'ha fatta curare al meglio, ma sul suo corpo è rimasta una cicatrice indelebile, lungo tutto il collo. Un sorriso inciso da una lama e una cannula per respirare: Alba è senza voce da quella notte. Da quando ha cinque anni, la sua è «la lingua del sogno, dei segreti, la lingua di chi non ha lingua». Il suo corpo è memoria: la prova che quella guerra negata, il sangue versato tra fratelli, gli abusi, gli stupri, gli assassinii, le torture, gli occultamenti, sono accaduti davvero. Mille morti in una notte, duecentomila in dieci anni. Il suo corpo grida la verità, mentre la sua lingua muta urla il destino negato alle donne del suo Paese. È per questo che Alba non vuole far nascere Urì, la bambina che porta nella pancia: per sottrarla ad altre tragedie.

È per tutto ciò che Daoud e Sansal, che scrivono queste cose, e le scrivono meravigliosamente, grazie al potere della letteratura, sono pericolosi: e perciò sono censurati e arrestati e messi a tacere.

È anche per questo che chi, nel nostro Paese, parla di censura a sproposito, comodo sul divano e armato del megafono di televisioni, giornali e social, dovrebbe sentirsi quanto meno ridicolo; non fosse per la sproporzione enorme tra chi gioca a fare il libero e chi, per la libertà, rischia davvero la vita.

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