Si vive solo due volte e si muore di conseguenza. Il prossimo 7 dicembre La Scala inaugura la stagione con Lady Macbeth del distretto di Mcensk di Dimitri Shostakovic, genio assoluto russo (diciamo sovietico) del quale ricorre anche il cinquantenario della morte: e quella scaligera sembra quasi una risposta, tardiva ed elegante, al nostro Paese che nei mesi scorsi negò il palco a due artisti russi ben allineati al regime putiniano: la bacchetta Valery Gergiev, a Caserta, e il baritono Ildar Abdrazakov a Verona; due fuoriclasse indiscutibili, ma anche due putiniani molto discutibili. La risposta della Scala in pratica è riportare alla luce un'opera che fu censurata da Stalin e che corrispose a una delle scomuniche più celebri di tutto il Novecento: il dittatore, in soli due giorni, e dapprima alzando solo un sopracciglio, fece sparire un'opera acclamata e la cancellò dall'esistenza, vergando poi sulla Pravda l'editoriale Caos invece di musica" che oggigiorno è divenuta una voce enciclopedica a parte, un classico del Terrore staliniano. Ergo, cinquant'anni dopo, e non sappiano quanto consapevolmente, l'Italia che ha negato spazio al regime di Putin darà finalmente spazio a un artista massacrato dal regime di Stalin. Ma per capire bene dobbiamo tornare a quasi novant'anni fa, al Teatro Bol'oj di Mosca.
26 gennaio 1936. Quel giorno la sala è piena che di più non è possibile, gli spettatori parlano a bassa voce, la musica di Shostakovic già risuona mentre dal fondo della platea si percepisce come un'onda invisibile, quasi una radiazione: tre uomini entrano senza fretta e senza esitazione, Stalin al centro, danov a sinistra e Molotov a destra. Non serve annunciarli, il silenzio si crea da solo. Stalin siede con solennità, le mani larghe sui braccioli, il busto immobile, lo sguardo fermo. Nella buca dell'orchestra il suono ringhia, gli ottoni mordono, i legni scoppiettano, gli archi si torcono, non è musica atonale, ma è di un'atonalità esasperata e distorta: Stalin la giudicherà "caos" più o meno come Hitler, due anni più tardi, giudicherà "degenerata" certa musica d'avanguardia la quale, beninteso, il prossimo 7 dicembre metterà a dura prova anche le orecchie scaligere.
Ma quel giorno i minuti passano, e Stalin è immobile, ogni tanto piega leggermente il labbro, accenna un sorriso quando la scena diventa più scoperta e più licenziosa, ma non è divertimento, è un giudizio. Quando giunge una scarica orchestrale tra le più violente, ecco, Stalin rabbrividisce o qualcosa del genere, è una movenza minima e quasi impercettibile ma che è percepita da chi gli sta vicino, e tanto basta.
Poi, nell'opera, si scivola a una scena erotica che si dispiega senza reticenza, e ci siamo: Stalin solleva un sopracciglio. E quel sopracciglio pesa come un decreto. È come se la platea avesse capito: di lì in poi ogni dissonanza, ogni glissando di trombone, ogni torsione della partitura, sembrerà un'offesa alla "musica di Stato".
Passa altro tempo e Stalin è sempre immobile, non applaude. Alla fine del terzo atto, quando si alza, lo fa senza guardare verso il palco: si allontana come un giudice che ha già in mente la sentenza. Dietro di lui arrancano le due appendici del potere, danov e Molotov. Non salutano. Quando Shostakovic si inchinerà a degli applausi intimiditi, più tardi, avrà il volto di un cadavere: ha trent'anni ma, con quegli occhialetti, sembra un vecchietto. Non sa ancora niente, ma sa già tutto.
28 gennaio 1936. Due giorni dopo la Pravda pubblica un editoriale anonimo: "Caos invece di musica". Manca la firma, tanto non serve: è la voce del Partito, la voce del Capo. L'opera è definita "rozza", "primitiva", "volgare", "cacofonica", "normalista", la musica è "nervosa e spasmodica", "un gioco d'ingegnosità che può finire molto male". In Russia quella non equivale a una critica, ma a un avviso di garanzia: è in grado di umiliare e poi di annientare una carriera.
In poco tempo, morale, Lady Macbeth sparì da ogni cartellone sovietico, muti i direttori d'orchestra che l'avevano esaltata, svaniti gli incarichi per Shostakovic, evaporate le scritture teatrali. I pochi che difenderanno Shostakovic non li avete mai sentiti nominare (Babel', Lenev, Mejerchol'd) e forse non è un caso.
Il genio, in quel periodo, stava lavorando alla sua Quarta Sinfonia, ma d'un tratto venne convocato dal Partito: con linguaggio inequivocabile, gli suggerirono di ritirarla "per evitare misure amministrative". Lui capì. Accettò. Ma prese a vivere con una valigia vicino alla porta.
21 novembre 1937. Una sorta di riabilitazione, l'anno dopo, fu favorita dall'entusiasmo del pubblico: coinciderà con la Prima della Quinta sinfonia, a tal punto magnifica (è la sua più celebre) che qualcuno scriverà amaramente che bisognava ringraziare Stalin per averne forzato la composizione. Ma è difficile da sostenere, oggi. Perché sappiamo che alla Prima a Leningrado, la futura San Pietroburgo cara a Vladimir Putin, sin dalla prima nota, quella musica si rivelerà squassante come una verità che non si poteva dire: si aspettavano un trionfo di ottimismo paranoide, ma quella musica li tramortì. Terribile. Lacerante. Il terzo movimento forse è la musica più dolorosa che abbiano mai scritto: e parlava di loro, delle loro paure e delle loro speranze, era la sinfonia del Grande Terrore staliniano, anche se nessuno poteva dirlo. Alla fine piangevano tutti, sul serio, letteralmente. Il direttore d'orchestra, il mitico Evgenij Mravinskij, alzò la partitura al cielo, e quando morirà, nel 1988, sulla sua scrivania, troveranno proprio quella, la partitura della Quinta di Shostakovic. Ma è un altro film. "Non ho scritto una sola nota in cui io abbia mentito", dirà anni dopo Shostakovic.
Lady Macbeth invece rimarrà morta e sepolta sino alla versione addomesticata degli anni Sessanta, "Katerina Izmailova", rimaneggiata per renderla compatibile con il gusto ideologico della nuova Unione Sovietica. Nel frattempo anche la Scala, negli anni Cinquanta, invano aveva tentato di ottenere l'originale: il sovrintendente Antonio Ghiringhelli si era mosso come poteva, ma da Mosca non gliela concessero mai. Quel titolo era interdetto.
7 dicembre 2025. Quasi un secolo dopo ecco che La Scala inaugura la stagione con la versione originale del 1934, proprio quella che Stalin disprezzò, quella proibita dal regime. Ci piace credere che non sia stata una decisione solo artistica, anzi, che sia stato un gesto politico alla rovescia, un capovolgimento simbolico. Non si cancella Shostakovic: lo si lascia restaurare dal futuro, in altre parole lo si interpreta. E lo si tramanda. Presto il pubblico degli Under30 ascolterà la partitura e ci capirà poco e nulla, e poi il pubblico più maturo e finto competente, tre giorni dopo, ci capirà anche meno.
Fa niente. Ascolterà una voce finalmente libera, perché in fondo la memoria, anche la memoria, è questo: un palcoscenico. Ci sarà un'opera che vivrà due volte, e un tiranno, quello che voleva seppellirla, che morirà di nuovo.