Gli scrittori liguri raccontano un secolo e mezzo di Italia

Gli scrittori liguri raccontano un secolo e mezzo di Italia

Quando il ventenne Goffredo Mameli inviò le sue strofe all'amico Michele Novaro perché le musicasse, certamente non pensava che quelle parole un giorno sarebbero diventate l'inno nazionale dell'Italia repubblicana. Era l'inverno del 1847 e il territorio in cui si usava come lingua ufficiale l'italiano, dal Veneto alla Sicilia, era suddiviso in stati e staterelli estranei l'uno all'altro. Eppure, sotto la cenere della normalità quotidiana, in ogni regione covava il desiderio di farla finita con gli oppressori stranieri che imponevano le loro leggi e i loro costumi. Non se ne poteva più di essere comandati e vessati dagli austriaci in casa propria. E Mameli, infatti, scriveva: Noi siamo da secoli / calpesti e derisi / perché non siam Popolo / Perché siam divisi...
E ci vollero Garibaldi e Mazzini, Cavour e Vittorio Emanuele II per giungere infine a quel fatidico 14 marzo 1861 quando a Torino il parlamento sabaudo approvò una legge che faceva assumere al reggente di casa Savoia il titolo di re d'Italia.
Questi ultimi 150 anni, di cui quest'anno ricorrono i festeggiamenti, vengono ripercorsi dalla studiosa Maria Teresa Caprile e dal professor Francesco De Nicola, docente di Letteratura Italiana Contemporanea presso l'Università di Genova, nel libro «...Italia chiamò», 150 anni di storia italiana nelle pagine degli scrittori liguri, pubblicato in questi giorni dalla De Ferrari Editore.
In pratica, si tratta di un'antologia di pezzi d'autore in cui si narrano gli avvenimenti dell'epoca, partendo Da Quarto al Volturno. Noterelle d'uno dei Mille (1891) di Giuseppe Cesare Abba e Con Garibaldi alle porte di Roma (1895) di Anton Giulio Barrili, fino al problema dei clandestini con Vento largo (1991) di Francesco Biamonti.
«Genova nelle ore supreme fu ammirabile - scrive Abba, raccontando il giorno in cui si imbarcò con i Mille a Quarto - Nessun chiasso: silenzio, raccoglimento e consenso. Alla Porta Pila, v'erano delle donne del popolo che, a vederci, piangevano. Di là a Quarto, di tanto in tanto, un po' di folla muta». Poi si va per mare, facendosi traghettare verso i due piroscafi Piemonte e Lombardo con barche stracariche. Abba, facendosi cullare dalle onde, si addormenta. «All'alba - racconta - fui destato, e vidi due navi maestose, lì ferme dinanzi a noi. Tutte le barche furono spinte verso quelle; si odono tutti i dialetti d'Italia, però i Genovesi e i Lombardi devono essere i più. All'aspetto, ai modi e anche ai discorsi la maggior parte sono gente colta». E inizia così l'avventura che alcuni mesi dopo consentirà a Garibaldi di consegnare a Vittorio Emanuele II quello che era stato il Regno delle Due Sicilie.
Toccante è anche la delusione di un emigrante, ex combattente per l'unità d'Italia, raccolta su una nave diretta alle Americhe da Edmondo De Amicis nel suo Sull'Oceano (1889). L'Italia è fatta, ma quell'uomo, stanco e nauseato da tutto ciò che ha visto, se ne va ben contento di lasciare «la terra, non la patria». «Nemmeno lui - scrive De Amicis - rimpiangeva la patria, infine. Essa era riuscita troppo al di sotto dell'ideale per cui si era battuto. Un'Italia di declamatori e d'intriganti, appestata ancora di tutta la cortigianeria antica, idropica di vanità, priva di ogni grande ideale, non amata né temuta da alcuno, accarezzata e schiaffeggiata ora dall'uno or dall'altro, come una donna pubblica, non forte d'altro che della pazienza del giumento».
C'è da domandarsi che cosa sia cambiato da allora...
E arriviamo così alla Prima Guerra Mondiale, cioè a quell'enorme mattatoio dove centinaia di migliaia di giovani persero la vita solo per fornire carne da cannone ai propri governanti. Ci fornisce una testimonianza della vita e morte in trincea Carlo Pastorino nel suo «La prova del fuoco», pubblicato nel 1931. «Un pomeriggio - scrive l'autore - Capuziello, lasciato Deli, si alzò per portarsi a quel posto. Ma si era appena mosso che una pallottola lo colpì in fronte, trapassandogli il cranio. Cadde morto sul colpo. Allora Deli prese fra le braccia il povero amico morto e lo adagiò nel suo riparo, accanto a sé. E si dette a piangere dirottamente come un fanciullo; e pianse a lungo senza potersi frenare».
Il fascismo prende il potere. E cambia radicalmente il Paese. Nel 1938, per compiacere Hitler, vengono approvate le leggi razziali. Nel suo «I ponti di Schwerin» del 1978 Liana Millu descrive l'umiliazione della bambina ebrea Elma Michela Misdrachim alle elementari. La maestra sta insegnando a tutte le scolare come farsi il segno della croce, ma si ferma per riprendere proprio lei. «Ora, tu ti alzi come le altre, in segno di rispetto - dice l'insegnante - Ma non devi farti il segno della croce e nemmeno ripetere quello che diciamo noi. Capito?». Emina avvampò. Perché non doveva fare come le altre? Era un castigo? Cosa aveva commesso? Tutte le bambine si erano rivolte a guardarla e le trafitture di quegli sguardi curiosi erano molto dolorose. Le sentiva anche sulla nuca e la schiena. «Noi siamo judim», dicevano spesso a casa. Che dipendesse da quello?
Quasi spassoso, se non fosse tragico, è un passo de «Le rose del Ventennio» (1958) di Gian Carlo Fusco. Mussolini è in visita sul fronte greco-albanese dove, fin dai primi giorni dell'avanzata italiana, si comincia ad intuire che sarà l'ennesimo disastro. A un certo incrocio di strade - racconta Fusco - Mussolini interpellò un anziano brigadiere generale, alto e severo, decorato più volte nell'altra guerra. «Che ne dici, generale, dell'attuale campagna?». Impeccabilmente sull'attenti, accanto alla macchina, dopo un momento di meditazione, rispose con marcato accento lombardo: «La fanteria non ha scarpe abbastanza. La nostra artiglieria, quando ha munizioni, bombarda la fanteria; la nostra aviazione compare piuttosto di rado, ma quando arriva, pesta tutt'e due». Il duce strinse gli occhi, poi disse in fretta: «Il tuo linguaggio è sorprendente, in bocca ad un vecchio soldato che, a quel che vedo, è stato un valoroso. Ha sapore di sabotaggio...». Due giorni dopo il generale fu trasferito a una zona militare metropolitana: ma l'offensiva non guadagnò un metro di terreno. Il primo maresciallo dell'impero fece ritorno in Italia.
Il libro continua con brani sulla Resistenza tratti dalle memorie di Don Berto Ferrari, cappellano di una brigata partigiana, e da Italo Calvino. Poi, mano a mano, arriva fino ai giorni nostri. In sostanza, un volume che vuole essere una testimonianza sui cui riflettere, per capire come eravamo e come siamo diventati.

Quando si arriva alle ultime pagine, gli interrogativi non saranno pochi.
«...Italia chiamò» - 150 anni di storia italiana nelle pagine degli scrittori liguri - di Maria Teresa Caprile e Francesco De Nicola, De Ferrari Editore, 240 pagine, 15 Euro.
lettorespeciale@rinodistefano.com

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