Era il 22 aprile 1500. Una flottiglia composta di tredici vascelli comandati da un nobiluomo portoghese, Pedro Álvares Cabral, giunse in vista di una terra sconosciuta e gettò l’ancora in un fondale a poca distanza dalla foce di un fiume costeggiato da boschi. Gli uomini mandati in esplorazione dalla nave ammiraglia su una scialuppa, scesi a terra, si trovarono circondati da una ventina di individui di colorito scuro, completamente nudi, e armati di archi e frecce, che li accolsero con curiosità mista a diffidenza, mentre piantavano sulla terra la bandiera portoghese una rozza grande croce. L’incontro fra gli indigeni che popolavano quella terra sconosciuta e i portoghesi cominciò così, quasi per caso, senza particolari manifestazioni di ostilità e con uno scambio di doni di scarso valore.
Quell’incontro rappresentò l’antefatto di una singolare avventura coloniale destinata a svilupparsi in uno scenario lussureggiante e pieno di fascino, tra foreste gigantesche e corsi fluviali imponenti: un’avventura che sarebbe durata, con alterne vicende, tre secoli almeno. Era l’epoca delle grandi scoperte e della nascita dei grandi imperi, della ricerca delle miniere d’oro, d’argento e di diamanti. L’avventura coloniale portoghese in Brasile apparve, agli inizi, deludente. Di metalli preziosi non sembrava ce ne fossero molti. Ci si dovette accontentare di piantagioni di canna da zucchero e caffè oltre che della raccolta, di un legno particolare dal quale si ricavava un colorante rosso.
Questa avventura ebbe pagine oscure e dolorose popolate di coloni senza scrupoli, avidi di terra e di forza-lavoro. Non a caso si parlò di «oro rosso» con riferimento al sangue che scorreva nelle vene degli indigeni catturati come schiavi. Ma fu anche, questa avventura, ricca di pagine più nobili legate alla attività dei gesuiti per l’evangelizzazione delle popolazioni autoctone e per la lotta contro la schiavitù e contro le ricorrenti epidemie. Nel complesso, tuttavia, la colonizzazione portoghese fu molto diversa da quella che, in altri territori, attuavano, per esempio, gli inglesi. Uno studioso americano specialista di storia dell’America Latina, Hubert Herring, per stabilire un paragone fra queste due potenze colonizzatrici, ha osservato che la formula inglese poteva essere compendiata nella parola «liquidazione», mentre quella portoghese nella parola «assimilazione». Gli inglesi facendo appello al nome di Dio e al «fardello dell’uomo bianco» di kiplinghiana memoria, fucilavano gli indiani mentre i portoghesi, pure inchinandosi a Dio, andavano a letto con le indiane. Non era una differenza da poco. Specifica Herring: «I piantatori inglesi della Virginia si comportarono come i piantatori portoghesi a Pernambuco: scelsero per sé le più belle ragazze negre. Ma gli inglesi, senza nessun senso di colpa, si rifiutarono di riconoscere la prole generata da tali connubi irregolari. I portoghesi, con atteggiamento affettuoso, s’inorgoglirono dei loro bimbi bruni, spesso li educarono, e li inviarono a scuola in Portogallo».
Il rapporto fra Portogallo e Brasile, insomma, fu forte davvero. Quando, all’inizio degli anni venti del secolo XIX, il Brasile divenne indipendente, non seguì il percorso di altre realtà ispano-americane che si organizzarono in repubbliche più o meno ricalcate su quella statunitense, ma scelse il modello imperiale e affidò il trono a un membro della famiglia reale portoghese Braganza. Questa scelta si rivelò felice per preservare l’unità della nazione contro i movimenti e le pulsioni secessionistiche e per garantire quella compattezza nazionale che avrebbe caratterizzato anche la storia successiva del Brasile repubblicano divenuto col tempo una grande potenza economica a livello mondiale.
Questi legami storici con il Portogallo spiegano anche il senso più riposto delle dichiarazioni rilasciate qualche tempo fa dal presidente brasiliano Dilma Roussef sulla disponibilità del suo paese a prendere parte alle iniziative per agevolare una ripresa dell’economia portoghese, magari attraverso l’acquisto di una parte del «debito sovrano» del Portogallo. Al di là delle motivazioni della proposta del presidente brasiliano, colpisce soprattutto la circostanza, inedita nella storia, di un paese colonizzatore che verrebbe salvato dal baratro proprio dalla sua ex colonia.
La conquista di segmenti dell’economia nazionale di un paese colonizzatore da parte di sue ex colonie non è una novità. Basterebbe pensare, a titolo esemplificativo, agli investimenti, alle partecipazioni azionarie, agli acquisti di società o imprese italiane da parte dei libici. Ma in questo caso la storia è diversa. L’indipendenza del Brasile non ha nulla a che fare, in verità, con il grande fenomeno della «decolonizzazione». Un fenomeno tanto importante ed epocale da determinare in poco più di due decenni la disgregazione di imperi costruiti in qualche centinaio di anni e la nascita di nuove realtà nazionali che hanno riscoperto il loro passato e le loro tradizioni oppure che si sono “costruite” un passato e una storia in funzione antieuropea anche in quei casi nei quali le loro classi dirigenti si erano, per così dire, abbeverate alla fonte della cultura europea. La conquista dell’indipendenza da parte del Brasile rientra nel quadro di un altro fenomeno, quello della costruzione degli Stati nazionali nel XIX secolo, ed è pertanto, sotto questo profilo, inassimilabile alla decolonizzazione. Un eventuale intervento del Brasile a favore del Portogallo non è quindi, in alcun modo, paragonabile a una operazione di conquista, quasi una sorta di revanche, da parte di una ex colonia, del paese conquistatore. Questa immagine è suggestiva ed è stata evocata, ma non è corretta.
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