Caro Massimiliano, desidero dirti grazie, come amica e come lettrice, della splendida «Lettera a una città» che hai scritto a Genova, che pure per me è amata patria di adozione o dove ho ormai vissuto i tre quarti della vita, lettera pubblicata su «il Giornale» nel giorno dell'Immacolata.
Hai saputo esprimere quello che tanti genovesi, d'adozione e doc, portano nel cuore senza avere la possibilità o la capacità di esprimersi pubblicamente. Genova ha questo terribile e contradditorio potere di essere gretta e «signora», colta e rozza, oppressa da un inguaribile «maniman» che le impedisce di sfruttare i TALENTI che la natura o il Padreterno le hanno gratuitamente concesso: un clima fra i migliori d'Italia per nove decimi dell'anno, mare sole cielo verde dei monti e bellezza delle vallate dell'entroterra, una ricchezza architettonica e artistica che seppure in buona parte nascosta o trascurata la pone alla pari con città d'arte come Firenze e Venezia.
È vero che Genova «si butta via» amministrata da decenni e decenni dalla peggior classe politica che si possa immaginare, e non dico questo perché è classe politica di sinistra: ho il massimo rispetto e stima ad esempio per il sindaco di Torino Chiamparino e quel colto sindaco-filosofo che è Cacciari, entrambi dello stesso partito di chi da noi governa Comune, Regione e Provincia.
Si tratta di uomini e di mentalità, non di ideologie, e il più amato sport dei nostri amministratori locali è, pur combattendo l'opposizione, di darsi addosso l'uno all'altro apertamente o larvatamente, facendo così naufragare o posponendo all'infinito tutte le possibilità di progresso della nostra città.
Come te. Massimiliano, sono nata ottimista e voglio rimanerlo, come te combatto, io con i miei piccoli mezzi, per aiutare questa nostra città a uscire dall'ombra e a splendere di quella luce che merita.
Tu dici che i genovesi, doc e non doc, sapranno utilizzare la legge dell'alternanza per cercare di cambiare?
Come mi disse tanti anni fa mia figlia mentre la portavo al Pronto soccorso per ricucire uno sbrego al ginocchio: «Tu, mamma, DICI che non mi farà male. Ma cosa CREDI?».
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