Quale futuro si apre per le società di gestione del risparmio estere operanti in Italia? Riusciranno i grandi brand internazionali della produzione a conquistare definitivamente un posto al sole in un mercato del risparmio nazionale che è guidato dalle scelte dei distributori, siano essi sportelli bancari o promotori finanziari? A queste domande ha cercato di dare una risposta la tavola rotonda Le strategie di crescita delle sgr estere sulla clientela privata. La relazione con le reti distributive, l’innovazione di prodotto e il ruolo della consulenza per lo sviluppo del multibrand organizzata da BancaFinanza.
Al dibattito, che è stato coordinato dal direttore di BancaFinanza Angela Maria Scullica e dal giornalista Marco Muffato, erano presenti Lorenzo Alfieri, managing director, responsabile commerciale per l’Italia di Jp Morgan asset management; Andrea Argenti, responsabile commerciale per la clientela retail per l’Italia di Blackrock; Mauro Castiglioni, amministratore delegato e responsabile della distribuzione retail in Italia di Dws investments; Giuliano D’Acunti, director, head of retail distribution di Invesco asset management; Manuel Noia, head of business development di Pictet funds; Davide Renzulli, responsabile distribuzione retail in Italia di Threadneedle; Luca Tenani, responsabile distribuzione in Italia di Schroders.
Domanda. Come è cambiata la vostra attività dopo la Mifid nel rapporto con le reti degli sportelli bancari e nel rapporto con le reti di promotori finanziari?
Tenani. Il business delle sgr estere tramite le reti degli sportelli bancari è ancor oggi limitato. Prima della Mifid le gestioni patrimoniali in fondi avevano un certo peso, ma con l’introduzione della direttiva europea questo tipo di attività si è fisiologicamente contratto. Ora sembra che la clientela bancaria retail sia tornata a guardare con un certo interesse a questi strumenti. Quanto agli effetti della Mifid sul mondo delle reti di promozione finanziaria, i cambiamenti non sono stati poi così rivoluzionari. L’obiettivo primario della direttiva europea era quello di rendere maggiormente trasparenti i fondi comuni d’investimento, strumenti che erano già sufficientemente chiari e ben regolamentati. Tra le conseguenze più immediate, un generale appesantimento del carico burocratico e amministrativo in onere ai distributori. Di positivo, tuttavia, possiamo dire che hanno cominciato ad affacciarsi sul mercato i servizi di consulenza. Molte reti di distribuzione si sono dotate di advisory desk, strutture che richiedono un’attività costante di informazione finanziaria da parte nostra, in una logica di sempre maggiore trasparenza.
D’Acunti. La Mifid non ha comportato grandi cambiamenti di attività, per quello che riguarda il nostro rapporto verso lo sportello bancario e verso le reti dei promotori e dei private banker. La direttiva ha affermato il concetto di trasparenza sui prodotti e sui costi. Ma ha anche spinto il settore del risparmio gestito verso un concetto di globale non più locale, come dimostra il fatto che oggi si fa attenzione più alla strategia che al veicolo.
Alfieri. Gli sportelli bancari hanno un focus assolutamente limitato sul prodotto fondo comune, concentrando il processo di vendita su altri strumenti. Discorso diverso per il promotore finanziario, che invece sostanzia la sua attività su un numero molto limitato di prodotti e in particolare sui fondi. Detto questo, è interessante notare come lo sportello bancario si sta aprendo in modo timido ma concreto alle sgr estere. Per noi significa dover affrontare problematiche specifiche ben diverse rispetto a quelle affrontate con le reti di promotori. Tra i principali problemi c’è quello della selezione dei prodotti: non è possibile proporre a uno sportello bancario un numero elevato di fondi di una singola società, per cui giocoforza occorre predisporre una short list di prodotti. In secondo luogo c’è un problema di formazione: il nostro referente all’interno dello sportello bancario è un professionista che dispone di una formazione molto limitata sul nostro prodotto. Di conseguenza, la formazione erogata al personale di sportello è radicalmente diversa rispetto a quella pensata per il promotore. Anche il materiale informativo e formativo ha caratteristiche peculiari per le reti bancarie. In ultima analisi c’è anche un grande problema di costi, senza dubbio. Una cosa è formare 3.000 o 4.000 promotori attraverso una modalità che può essere assolta in modo economico. Altra cosa, in termini di costi, è raggiungere e formare il personale di 1.000 o 2.000 sportelli. Per i promotori la richiesta di formazione è diventata primaria: fino a poco tempo fa, le reti chiedevano un supporto formativo assolutamente marginale. Con l’avvento della Mifid, questo è diventato fondamentale. Altra novità è la richiesta, da parte dei promotori, di una notevole semplificazione dell’offerta, con prodotti più trasparenti, puri e semplici da vendere. La Mifid, infine, ha inciso molto spingendoci a effettuare fusioni di fondi e a eliminare alcune asset class.
Castiglioni. Le banche hanno costituito veri e propri product department, che svolgono un importante lavoro di selezione dei fondi, perché la sgr estera entri a far parte di una proposta di portafoglio misurata e già ponderata da esperti. Nel mondo dei promotori finanziari c’è maggiore libertà: questi operatori possono fare valutazioni più soggettive e proporre alla propria clientela una scelta più ampia. Questo è ancora più importante in riferimento alla parte azionaria, per la quale i clienti tendono a rivolgersi ai promotori con lo scopo di accedere a un maggior numero di prodotti. Negli ultimi tempi, la struttura bancaria si è molto concentrata su profili medio bassi, focalizzando la propria offerta sui bond, mentre i promotori lavorano più nell’ottica di lungo termine, con una maggior apertura verso le opportunità di mercato.
Renzulli. L’introduzione della normativa Mifid ha posto le basi per una maggior regolamentazione nell’ambito dell’industria del risparmio gestito. Anche se all’inizio le istituzioni finanziarie hanno faticato ad allinearsi, oggi esiste una maggiore consapevolezza dei vantaggi offerti dalla normativa. Emerge che, indipendentemente dal canale, il concetto della consulenza è sempre più al centro dell’attenzione. Con quali conseguenze? A dispetto del modo di lavorare degli anni passati, tutti gli operatori (in modo particolare le reti di promotori finanziari, che rappresentano poi il nostro target, ma anche degli sportelli bancari) sono obbligati a uno studio più approfondito dei prodotti che propongono alla clientela. Per creare una proposta di investimento il più idoneo possibile al profilo dell’investitore. Dal canto loro, invece, le direzioni commerciali di questi intermediari o banche sono molto più attente nel filtrare i contenuti e i messaggi che arrivano dal mercato. E focalizzano maggiormente l’attenzione sulla pianificazione del rapporto finanziario banca-cliente. In questo senso si spiega l’avvento degli advisory desk. La cui funzione principale è analizzare fondi, sicav e in generale prodotti finanziari per fornire uno strumento utile agli operatori (sportelli bancari e promotori). E offrire al cliente un servizio e non una mera proposta commerciale. Tutto questo comporta che anche società di gestione considerate come boutique siano oggetto quotidiano di studio e analisi per offrire sempre più prodotti di qualità. Questo richiede da parte loro un maggior impegno di servizio e supporto alle reti distributive. Non a caso, a distanza di due anni dall’apertura degli uffici di Milano, abbiamo già provveduto a potenziare il team che oggi conta su sei persone per soddisfare le diverse richieste di collaborazione che ci arrivano. Con riferimento all’attività retail, abbiamo notato, con il passare degli anni, un maggior coinvolgimento della relazione a livello di direzione finanziaria, proprio per partecipare alla selezione delle scelte di investimento. Anche se, nell’ambito delle reti distributive, il rapporto diretto con il promotore ha ancora una valenza forte.
Argenti. Oggi si va verso una specializzazione dei ruoli fra domanda e offerta. Gli operatori finanziari sono alla ricerca di efficienza ed eccellenza e questo li spinge a focalizzarsi su un numero ristretto di attività core al proprio business. Di qui la separazione dei ruoli tra fabbrica prodotto e distributore. In Italia, nel mercato del risparmio gestito, va affermandosi un modello ad architettura aperta con i canali distributivi intenti a proporre ai propri clienti prodotti di qualità, a prescindere dalla società di appartenenza. In certi casi, l’offerta è diventata quasi eccessiva. Tanto è vero che stiamo assistendo a un processo selettivo, con la raccolta che si focalizza su un numero ristretto di prodotti e società in grado di offrire eccellenza. Con i promotori e i private banker siamo nella seconda fase dell’architettura aperta: si sta passando da un numero elevato a uno più ristretto di controparti. La tendenza da parte delle reti è quella di lavorare con pochi partner con cui instaurare relazioni basate non solo su prodotti dedicati, ma anche sul servizio e sulla formazione, con l’obiettivo di dare ai clienti qualcosa di unico ed esclusivo. La partecipazione a questo processo da parte delle banche è stata più timida, ma oggi si trovano nella condizione, per i motivi di cui sopra, di ripensare alla propria gamma di offerta, a quali attività tenere in casa e quali esternalizzare. Guardiamo quindi con interesse all’evoluzione del mondo bancario, perché riteniamo che, nel passaggio a un modello ad architettura aperta, potrebbero passare subito alla seconda fase, ricercando un numero ristretto di partner con cui attuare un solido processo di wealth management.
Noia. Oggi, a fronte di una gamma prodotto sempre più ampia, una delle preoccupazioni principali di un promotore finanziario è la difficoltà di assemblare prodotti molto diversi tra di loro, con l'obiettivo di costruire un portafoglio robusto per il proprio cliente. Da una parte ci sono le fabbriche prodotto che tendono a produrre «mattoncini» per il cliente. Dall’altra parte ci sono le reti di vendita, che cercano invece soluzioni globali, buone per tutte le stagioni. Si continua a insistere sulla formazione prodotto, ma si tralascia la formazione su come mettere insieme prodotti diversi. Siamo convinti che costruire portafogli efficienti non equivalga necessariamente a selezionare i fondi con il più alto rendimento negli ultimi 12 mesi. In questo mercato, si sente l’esigenza di un servizio di advisory e di asset allocation che consenta un dialogo più proficuo tra distribuzione e produzione, per creare portafogli tattici che siano davvero coerenti con gli obiettivi del cliente finale. Altrimenti rimarrà in vita un equivoco di fondo: la fabbrica prodotto che dice al distributore: «Sei tu che conosci il tuo cliente, tocca a te costruire il portafoglio», e il distributore che ribatte alla fabbrica prodotto: «Sei tu in possesso delle competenze, quindi l’asset allocation spetta a te».
D. Dagli inizi degli anni 2000 a oggi, nell’arco di soli dieci anni, il multibrand è cresciuto di peso e con esso il ruolo delle sgr estere. La vostra fase di ascesa nelle relazioni con la distribuzione tradizionale si può ancora rafforzare? Gli sportelli bancari possono tornare a essere buoni collocatori di fondi comuni d’investimento o lo strumento continuerà a essere collocato di preferenza dalle sole reti di promotore?
Noia. L’industria del risparmio gestito sta vivendo una fase di profondi cambiamenti, che hanno subito un’ulteriore accelerazione come conseguenza della recente crisi finanziaria. In Italia, in particolare, stiamo assistendo a quanto già avvenuto in altri settori industriali: il graduale disimpegno dei grandi gruppi bancari domestici dalla produzione per sposare una logica di pura distribuzione. D’altra parte, il mestiere della gestione di patrimoni mal si concilia con l’organizzazione e le dinamiche di gruppi bancari polifunzionali. La specializzazione è una condizione fondamentale per svolgere bene questo mestiere, evitare conflitti di interesse e creare valore attraverso strategie di crescita di lungo periodo.
Argenti. Preferirei parlare di case d’investimento terze piuttosto che di case estere, visto che abbiamo assistito negli ultimi anni anche a una crescita delle case domestiche «estero-vestite». A mio avviso, le case terze aumenteranno la loro quota: questo mi sembra un trend irreversibile. Ciò che è fondamentale è offrire soluzioni d’investimento che rispondano alle esigenze degli investitori. Per fare ciò è necessario rafforzare il loro legame con distributori e gestori, in un gioco di squadra in cui ognuno apporta il suo contributo con l’individuazione di un fabbisogno finanziario, la creazione di una soluzione ad hoc e una sua efficace gestione. Un buon esempio di questa collaborazione è rappresentato dal successo riscontrato dai fondi a cedola, che rispondono a un bisogno di rendita da parte degli investitori, recepito dai canali distributivi. E a cui si è risposto con soluzioni che offrono diversificazione e selettività.
Renzulli. Se dovessi valutare la nostra storia sul mercato italiano, dovrei ritenere che l’industria dei fondi presenti margini di crescita per tutti. E, a maggior ragione, per le società di gestione estere, che si basano su completa indipendenza e maggior focus sull’attività di gestione. Certamente i volumi sono notevolmente diversi (con una tendenza al ribasso) rispetto al passato: questo ci deve spronare a una maggior attenzione verso il servizio e la qualità dei prodotti offerti agli intermediari. Assisteremo sempre più a una specializzazione tra gestori alpha e beta. I primi dovranno eccellere nelle classi di attivo di competenza anche perché è ormai difficile gestire tutte le asset class. Sicuramente le reti di promotori finanziari e private banking saranno sempre più i principali attori dell’intermediazione finanziaria con i clienti privati. A maggior ragione se verranno poste in essere le misure dettate da Banca d’Italia per ridurre i conflitti di interesse tra fabbriche prodotto e distributori. Anche se sono convinto che il canale bancario farà il suo ritorno una volta sistemati i bilanci e i ratio patrimoniali sui quali si è concentrato nel corso degli ultimi due anni di difficoltà finanziarie. Discorso a parte per i consulenti indipendenti. Noi ci siamo presentati a questi professionisti fin dai primi giorni della nostra presenza in Italia, ma pensiamo che siano ancora lontani dall’essere un intermediario finanziario di prim'ordine. Sicuramente l’introduzione dell’albo professionale darà loro un grosso aiuto.
Castiglioni. Veniamo da una situazione di mercato molto difficile: negli ultimi anni, l’industria del risparmio gestito ha sofferto molto, pagando sulla propria pelle i veri costi del refunding del sistema bancario, pur necessario dopo la terribile crisi finanziaria. Mi piace pensare, tuttavia, che lo strumento fondo di investimento - che è nato con uno scopo nobile e non si è mai modificato, anche nei momenti di grande crisi - possa assumere una valenza ancora maggiore. Raccogliendo il risparmio delle famiglie e incanalandolo in prodotti che consentano di diversificare i rischi presenti sul mercato. Ciò è ancora più doveroso per la parte obbligazionaria, a cui i risparmiatori guardano con grande desiderio di alti tassi di rendimento. È risaputo, infatti, che il ruolo di una diversificazione efficace assume più importanza proprio nei momenti in cui, con la necessità di aumentare i rendimenti di portafoglio, scende la qualità degli emittenti. E quindi delle stesse obbligazioni.
Alfieri. Dove andrà l’industria italiana del risparmio? Per rispondere, occorre osservare la direzione dell’industria nel suo complesso; qui si può osservare una polarizzazione con global player che stanno sempre più aumentando in termini di dimensioni e con operatori che, più che di nicchia, è meglio definire focalizzati. Questo è quanto sta avvenendo su tutti i mercati internazionali a fronte della concorrenza che gli Etf stanno facendo ai fondi. Questa situazione impone, a chi vuole rimanere concorrenziale nel mondo del risparmio gestito, dimensioni che fino a poco tempo fa non erano plausibili. Se si deve competere con un prodotto che prevede commissioni molto ridotte, occorre lavorare su masse molto grandi. Ecco la ragione di tante acquisizioni e fusioni, che riguarderà prima o poi anche l’Italia.
D’Acunti. Non ha più senso parlare di distinzione tra una sgr estera o una sgr italiana. La vera distinzione è, invece, tra le società indipendenti specializzate nel risparmio gestito e quelle che hanno vincoli di distribuzione con i gruppi bancari. I quali peraltro stanno dismettendo l’attività di asset management. Insomma: la vera differenza non è tra sgr estere e italiane, ma tra chi fa del risparmio gestito la propria attività principale e chi no. Le società indipendenti sono chiamate a rispondere con tempestività a ciò che chiede il mercato: prodotti semplici, trasparenti e a costo basso. Non è un caso che Invesco si sia mossa per tempo quattro anni fa comprando una società di Etf negli Usa. Molti chiedono perché gli Etf stanno prendendo poco piede in Italia e siano snobbati dalle reti di distribuzione. Effettivamente, stanno crescendo in maniera marginale nel segmento retail. Fino a quando la consulenza reale non sarà attiva, lo spazio per l’investimento in fondi rimarrà predominante. Sempre guardando al mercato si è passati da una richiesta di prodotti total return a un’esigenza di absolute return: sembrava la soluzione ottimale ma poi il mercato ha richiesto altro, come i prodotti a cedola. E le sgr si sono adeguate a quella che è esigenza della tutela del risparmiatore, di avere un flusso cedolare costante. Anche per offrire un alternativa a titoli di Stato e obbligazioni bancarie. Abbiamo creato prodotti a cedola, che permettano al cliente di diversificare puntando su asset class che hanno rendimenti più elevati, utilizzando cioè il corporate così come il debito emergente.
Tenani. Il mercato nazionale di fondi comuni, fondi pensione e prodotti assicurativi rappresenta circa il 20% della ricchezza totale delle famiglie italiane. Il livello di diffusione di questi prodotti nel nostro Paese è sicuramente minore rispetto ad altre nazioni europee come Francia e Germania (dove si attesta al 40%), Olanda e Inghilterra (dove si arriva al 55%). Questo però dimostra che ci sono ampi spazi di crescita. I fattori che possono agevolare questo sviluppo sono almeno quattro. In primo luogo, ci si auspica che le «regole del gioco» siano uguali per tutti a livello di Unione europea. In un contesto di questo tipo, i distributori avranno meno conflitti di interesse o necessità di spingere un prodotto piuttosto che un altro. Il secondo elemento è legato alle esigenze specifiche della consulenza finanziaria. Per svolgere efficacemente questa attività è indispensabile disporre di una gamma di offerta ampia ed evitare di limitarsi a vendere i soli prodotti della casa. Il terzo elemento è rappresentato dalla separazione tra la fabbrica prodotto e la distribuzione, caldeggiata da Banca d’Italia. Una specializzazione di questo tipo potrebbe consentire ai player internazionali di aumentare la propria quota nel nostro Paese. Il quarto e ultimo elemento è legato all’evoluzione della previdenza complementare italiana. È allo studio il «silenzio assenso», inteso come possibilità di trasferire il Tfr nei fondi pensione in mancanza di esplicita volontà contraria. Questa misura darebbe sicuramente un grosso stimolo all’industria. Con l’incremento delle masse in gestione, i fondi pensione avvertirebbero l’esigenza di una più marcata diversificazione, e da questo deriverebbe un incremento dei mandati alle sgr estere. Per quanto riguarda il secondo aspetto - cioè se a collocare i fondi d’investimento saranno più i promotori finanziari e i private banker che non gli sportelli bancari - va riconosciuto che spiegare a un cliente il funzionamento di un fondo è decisamente più complesso rispetto alla proposta di un titolo di Stato o di un’obbligazione bancaria. Quindi, molto probabilmente, la vendita di questi strumenti resterà ancora per un po’ nelle mani delle reti di promozione finanziaria e di private banking. Non bisogna però dimenticare che in Italia oltre il 70% della ricchezza finanziaria è ancora intermediato dal canale bancario. Sono ottimista riguardo al fatto che gli sportelli torneranno a vendere i fondi: hanno già intrapreso un importante percorso di evoluzione, che, anche grazie alla tecnologia, permetterà una maggiore e più efficiente diversificazione dei servizi rivolti alla clientela retail.
D. In questo contesto il brand è ancora un fattore distintivo sul mercato?
D’Acunti. Stiamo assistendo a un processo di normalizzazione, semplificazione e di razionalizzazione. Presto avremo sul mercato pochi grandi operatori specializzati nell’attività di risparmio gestito. Quindi conterà sicuramente il brand ma soprattutto come ci si saprà posizionare sul mercato. La scelta si baserà su indipendenza, dimensione globale/specializzazione e stabilità nella gestione.
Alfieri. La Mifid e soprattutto la crisi fanno guardare in modo diverso al brand rispetto al passato. Il nome non è più sufficiente, lo era in passato. Chi vuole entrare in Italia puntando solo sulla forza del marchio rischia di andare incontro a sorprese. Se un operatore con un brand forte non riesce a rispondere alle aspettative in un contesto come quello attuale può essere tagliato fuori in modo definitivo dal mercato.
Tenani. Sicuramente il brand è importante, ma raramente il cliente finale inteso come «risparmiatore medio» è in grado di riconoscere, di fronte alle diverse case d’investimento, i caratteri distintivi legati ai prodotti e allo stile di gestione senza la consulenza dell’intermediario.
D. Quali trend di prodotto sono destinati a emergere nei prossimi mesi? Siete favorevoli all’introduzione di classi retail di fondi con costi omogenei a quelli delle classi istituzionali? C’è una proposta dell’associazione delle sim di consulenza diretta alle authority, che chiede per i loro clienti privati la possibilità di acquistare i fondi riservati alle classi istituzionali. Cosa ne pensate?
D’Acunti. Un trend è sicuramente rappresentato dai prodotti a cedola, come dimostrano i dati di raccolta. Siamo andati a spingere soprattutto due fondi che fanno riferimento al corporate e al debito emergente. Se devo pensare a una tendenza futura mi viene in mente la creazione di soluzioni di risparmio gestito che lavorino effettivamente sul lungo periodo e quindi sleghino il nostro risparmiatore da un concetto di investimento a sei mesi o un anno e iniziando a creare prodotti che lavorino sul concetto di gestione della pensione. Sul tema dei prezzi non è il fondo che ha un costo, bensì la distribuzione. In realtà sul concetto dei costi si deve muovere il sistema Italia più che le sgr.
Noia. È noto come in Italia i costi della distribuzione siano proibitivi e senza uguali sui mercati esteri. La commissione che rimane al gestore è davvero poca roba. Finché la situazione resterà in questi termini l’introduzione di classi retail con costi più bassi rimarrà una chimera. Per quanto, in linea di principio, si possa essere favorevoli.
Castiglioni. Già oggi, a volte, il consulente o i canali di vendita superano il problema delle retrocessioni delle commissioni che gravano sui fondi avvicinandone il costo per il cliente privato a quello per la classe istituzionale, secondo una logica che sta decollando per i patrimoni medio-grandi dove viene più facilmente recepita e apprezzata. Si tratta infatti di una modalità che tende a semplificare l’operatività e che crea una maggiore trasparenza. Sul tema, comunque, la nostra posizione è neutrale. Posso spezzare una lancia in difesa dei canali distributivi? I costi della distribuzione non sono mai stati il problema principale per il cliente. Si pensi ai fondi pensione, nati in Italia con l’obiettivo di chiedere ai sottoscrittori il total expense ratio più basso possibile. Chi ha aderito al fondo pensione Cometa, per esempio, è sì sicuro di spendere pochissimo, ma anche di ottenere un rendimento limitato. Perché la gestione punta alla protezione del capitale e a investimenti di breve termine, il che è poi l’antitesi rispetto all’orizzonte temporale dell’investitore. Il risparmiatore paga commissioni ai livelli più bassi di mercato. Tuttavia, gli investimenti a breve non sono sempre in grado di fronteggiare adeguatamente il rischio di inflazione, ora sottovalutato, che in realtà è molto forte.
Tenani. In ogni catena del valore, i vari attori sopportano costi diversi per arrivare al cliente finale. E questi costi devono essere remunerati. È un po’ quello che avviene nel settore del largo consumo: acquistare frutta in Via della Spiga, non è la stessa cosa che acquistarla in un supermercato di una zona periferica di Milano. Alla fin fine il costo della distribuzione è legittimo, perché il servizio che viene dato al cliente è diverso. Cercare di omogeneizzare i costi della classe istituzionale con quelli della classe retail potrebbe quindi essere un errore.
Argenti. Oggi più che mai gli investitori, e quindi i distributori, richiedono qualità e soluzioni a loro specifiche esigenze. Da qui l’affermarsi di prodotti flessibili che sappiano offrire crescita del capitale con un'attenta gestione del rischio o di fondi a cedola, che rispondono all’esigenza di rendita. I fondi tematici o sui mercati emergenti continuano a riscuotere interesse perché sono opportunità di crescita, ma rimangono una componente comunque limitata del portafoglio, come è giusto che sia dato il profilo conservativo dell’investitore medio italiano. Un'attenzione crescente è prestata, invece, alla componente core del portafoglio, fatta di fondi obbligazionari e soluzioni con ampia delega al gestore. E questo è un segnale di maturazione del settore del risparmio gestito.
Renzulli. Stiamo vivendo una richiesta sempre crescente di prodotti che utilizzano derivati per una gestione efficiente di portafoglio (i cosiddetti Newucits). Sulle commissioni, invece, occorre capire quali sono i vantaggi e gli svantaggi. Rendere omogenei i costi di gestione renderebbe il mercato ancora più competitivo e trasparente. L’intermediario si potrebbe focalizzare principalmente sulla qualità dei prodotti da offrire, senza far ricadere la scelta sull’introito che deriva dalla vendita. Inoltre, un minor costo di gestione significa una maggiore performance dello strumento finanziario. E un abbattimento dei costi del sottostante, qualora si proceda nella direzione del pagamento a parcella.
Alfieri. Riteniamo che ci debba essere sempre massima trasparenza. Non ci dimentichiamo che tutti i margini al di sopra delle classi istituzionali vengono riconosciuti al consulente, non a noi. Quindi il nostro punto di vista è assolutamente neutro. Siamo per una corretta remunerazione della catena distributiva, basta che ci siano i presupposti di professionalità adeguati. Ma le reti dei promotori finanziari seguono ancora la logica del prodotto di moda, perdendo di vista quella che è la prerogativa principale, cioè la costruzione del portafoglio nel medio e nel lungo termine. Per cui oggi parliamo di prodotti a cedola, fra sei mesi emergerà qualche altro tipo di strumento. Trovo sbagliato, per esempio, trascurare i Pac che rappresentano una filosofia di investimento molto interessante ma marginale tra le reti.
D. Non è che in questa diffidenza delle sgr nei confronti dei consulenti indipendenti c’è anche la loro dichiarata maggiore simpatia per gli Etf, cioè per strumenti meno costosi dei fondi comuni?
Renzulli. La metterei su un altro piano: non credo che la volontà di un cliente di investire in un preciso strumento possa determinare la scelta verso un intermediario finanziario o altro. Il consulente indipendente verrà assimilato a un avvocato, a un fiscalista o a un promotore finanziario. Sarà sempre il cliente a decidere se perseguire il rapporto con l’intermediario sulla base della qualità del servizio offerto. Di per sé, l’Etf è importante, come il fondo comune d’investimento avrà il suo ruolo e il titolo di Stato anche, perché tutti insieme possono essere utilizzati dal consulente finanziario o promotore nella sua attività.
Argenti. Gli Etf e i fondi comuni di investimento sono prodotti costruiti per rispondere alle esigenze degli investitori. Gli uni non escludono gli altri. Anzi, possono convivere all’interno di un portafoglio. Trovo quindi non corretta l’associazione fra canale distributivo e la tipologia di strumenti: sul mercato americano Etf e fondi sono utilizzati sia da promotori finanziari, sia da consulenti indipendenti.
Noia. In Italia la consulenza indipendente è agli albori, ma guardiamo con interesse i possibili sviluppi. Certo, non gioca a favore della categoria un albo che sta sempre per nascere e poi viene fermato. Non ci sembra, in ogni caso, che ci sia una diffidenza delle sgr nei confronti dei consulenti indipendenti. Tra l’altro, vi sono importanti sgr che producono Etf. Piuttosto, sono le reti di distribuzione che mostrano una certa diffidenza nei confronti dei consulenti indipendenti.
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