
È scomparso ieri il più grande fotodocumentarista contemporaneo. Che fatalità andarsene per le conseguenze causate dalla malaria che si portava dietro dagli anni Novanta, proprio lui che contro la «mal-aria» si è battuto così tanto facendo ricrescere un'immensa area verde. Sebastião Salgado e sua moglie Léila Deluiz Wanick per oltre due decenni hanno promosso un piano di riforestazione in Brasile, nella Vale do Rio Doce dove lui stesso era cresciuto. Un sogno da quattro milioni di alberi diventato obiettivo tangibile che vede la salvaguardia della natura come unico orizzonte possibile in quell'angolo di Amazzonia devastato da una crisi ambientale inarrestabile. Salgado se ne va a 81 anni, lasciando un mare di piante, una fondazione che porterà avanti il progetto naturalistico (l'Instituto Terra), e un oceano di fotografie diventate patrimonio dell'umanità intera, quella stessa umanità che ha raccontato percorrendo i continenti con la sua Leica.
Da anni viveva a Parigi facendo fruttare il suo immenso archivio e dedicandosi alla filantropia. L'ho incontrato più volte, in occasione dei passaggi che fece a Milano per le sue mostre, o a Londra durante l'edizione 2024 dei Sony World Photography Awards che gli hanno assegnato l'«Outstanding Contribution for Photography», ennesimo meritato premio che ne ha celebrato la carriera. Ha esposto i suoi reportage in tutto il mondo, prodotto libri come Genesi, La mano dell'uomo, In cammino, Altre Americhe, Amazonia, in Italia pubblicati da Contrasto e tutti pezzi da collezione che non possono mancare nelle biblioteche degli appassionati di immagine. Ha affrontato ogni tema, sempre partendo dalla consapevolezza che in tutte le cose esista un lirismo fatto di rispetto e della stessa saudade che si leggeva nei suoi occhi azzurro cielo. Le guerre, gli animali, le migrazioni dei popoli, il lavoro dell'uomo, i bambini, l'Africa... ha documentato ogni orizzonte percorrendo migliaia di chilometri, senza sensazionalismi e con un unico obiettivo: raccontare storie con quei bianchi e neri barocchi, carichi di contrasti forti e poesia. «Io stesso sono barocco» mi disse una volta. «Ho ereditato il luogo dove sono nato, le cose che mi hanno influenzato. Il mio Paese ha i posti più belli e barocchi del mondo. Alla fine, ognuno di noi usa gli strumenti che conosce, e la sua etica».
Senza falsa modestia, composto, diceva di non fare niente di così speciale, di trovare ispirazione nel mondo che è già bellissimo, pieno di luce e paesaggi. Trovava dignità in ogni cosa ed era in armonia con ciò che osservava. Salgado non ha mai avuto una passione per i drammi, ma l'aveva per l'attualità, che è spesso fatta di drammi. Da fotografo documentale non voleva denunciare o criticare lo stato delle cose, ma creare consapevolezza in chi osserva. Ha inquadrato la società degli uomini, poi si è rivolto alla natura, agli animali in via di estinzione, ai ghiacciai che stanno scomparendo e che per tutta l'estate saranno in mostra al Mart di Trento e Rovereto per una mostra diffusa che raccoglie una cinquantina di opere realizzate dal maestro tra il 1995 e il 2020.
Salgado ha guardato il pianeta come un uomo primordiale, con uno stile originale e riconoscibile ne ha ricreato lo stupore. A pensarci, aveva la stessa capacità di Victor Hugo o Graciliano Ramon, narratore della povertà dei contadini brasiliani, di dare voce ai senza voce, mostrando un'estrema attenzione per le genti più marginalizzate delle società che visitava. Come Jorge Amado ci ha parlato degli schiavi, ci ha fatto conoscere i lavoratori e le comunità sudamericane oppresse, ma ha sempre esplorato le ingiustizie sociali e la sofferenza umana cercandone la bellezza in essa racchiusa.
La sua più grande sfida avvenne agli esordi della carriera. Faceva l'economista; quando ha iniziato a fotografare doveva capire se stava percorrendo la strada giusta nella solitudine di quel mestiere artigiano che gli faceva porre un sacco di domande su quale sarebbe stato l'impatto dei suoi scatti. Ha voluto individuare una ragione per quello che ha scelto di fare, seminare speranza e insegnare ai suoi spettatori la consapevolezza di cosa ci sta intorno e di cosa stiamo perdendo. Essere «testimone» è un termine che in Salgado ha avuto una personificazione. Non ha mai amato nemmeno le foto rubate, pratica tanto diffusa tra i fotografi di questo tempo. Il suo stile era ponderato, fatto di attese e pensiero.
Una volta, durante un affollato talk in Galleria Meravigli organizzato da Forma, gli chiesi di definire la sua fotografia in una parola. E lui, sorridendo con un angolo della bocca e pensandoci un po', mi disse «Pazienza».
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