Tommy Cappellini
Poeta e psicanalista: difficile trovarli nella stessa persona, l'eccessivo indagare nella propria anima e in quella altrui può intorbidare le sorgenti interiori. Fa eccezione Cesare Viviani. Nato a Siena nel 1947, vive a Milano dal '72 dove ha portato avanti la sua opera poetica con libri intensi come L'amore delle parti, L'opera lasciata sola e La forma della vita. In parallelo, si è dedicato alla professione di psicanalista, pure con saggi come Il sogno dell'interpretazione e il recente L'autonomia della psicanalisi, entrambi per Costa & Nolan, dove sostiene la separazione tra psicoterapia e psicanalisi.
Com'è giunto a Milano dalla Toscana?
«Per caso. Dopo la laurea, volevo iscrivermi alla Scuola sperimentale di regia a Roma. Una mia cugina mi invitò qui per il suo matrimonio. Sono rimasto tanto affascinato da questa città da cambiare programma di vita. Venivo da un luogo dove c'era una stereotipia di comportamenti. Qui ho trovato una grande ricchezza di storie umane».
Forse perché era, semplicemente, una grande città?
«La dimensione metropolitana moltiplica le possibilità a priori, ma posso dirle che continuo ad amare Milano come trentasei anni fa. Con un disagio però che prima non avevo, ma oggi sì».
Quale?
«L'incredibile aumento dell'aggressività, anche psichica, tra le persone. Ritengo sia proporzionale alla distorsione della nostra civiltà: si punta tutto sulla vita pratica, che dà risultati e che tutto sommato è gestibile. Ma il prezzo da pagare è diminuire al massimo il contatto con le incertezze della vita emotiva e affettiva. Un sottrarsi al dialogo, forse per incapacità di viverlo».
A cosa è dovuta questa incomunicabilità coltivata?
«È effetto del pragmatismo, come effetto di quest'ultimo è lo stress: "non ho tempo" è lo slogan - e l'alibi - milanese per eccellenza. Come un cane che si morde la coda però, lo stress fa aumentare la richiesta di terapie: ormai ce ne sono di ogni tipo».
Come si può spezzare questo circolo vizioso?
«Fintanto che l'essere pragmatici verrà posto come primo valore, sarà sempre così. Occorre dare primato alla vita in quanto tale, agli affetti in quanto tali. La via potrebbe essere quella di esperienze non finalizzate: l'arte, la spiritualità, la psicanalisi. Esperienze non utilizzabili. Non terapeutiche. Esperienze di confronto con la conoscenza e con i limiti della conoscenza».
Può accadere in questa città?
«Milano - come i suoi abitanti - si riempie di conoscenze soltanto pratiche. Diventa facile così non accettare i limiti, il peso doloroso dell'ignoto, sentirsi onnipotenti. Eppure aveva una dimensione sobria e bella, per esempio, del lavoro. Anche negli anni Sessanta si lavorava molto: ma il lavoro era un impegno serio nei confronti della vita e del sociale. Oggi è soltanto competizione e speculazione, assenza di contenuti e di teoria».
Il paesaggio urbano di Milano le piace?
«Sono innamorato del centro. Ha qualcosa di esatto, di pulito. Questa è una città costruita in modo ordinato: pensiamo ai cerchi concentrici delle circonvallazioni, alle vie radiali per uscire verso l'esterno... Tutto questo fornisce come una base di chiarezza al magma oscuro delle complesse vicende umane che vi accadono».
E le nuove contestate architetture?
«Non mi dispiace la Bocconi. Certo, l'architettura di Milano va verso il freddo, il lineare, le superfici a specchio, quasi respingenti, e non verso il caldo, la dolcezza. Comunque preferisco gli stili antichi, il romanico e il gotico. L'Expo, non lo caricherei di significati risolutivi».
Ma a Milano ci si diverte?
«Il divertimento qui è come una scarica, un'esplosione. Dove sono i luoghi di incontro reale, che è diverso dalla cena settimanale con gli amici stretti? Ci si rifugia sempre di più nella propria casa, dopo aver passato dieci ore in un ambiente di lavoro troppo dinamico, e così persino la solitudine perde la sua dimensione originale: diventa uno stare soli per tirare il fiato».
Cosa racconterebbe Milano distesa sul lettino di Freud?
«Temo parlerebbe di una certa infelicità.
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