La lezione di Sinner sulla sconfitta

Non è solo una questione di eleganza o di maturità. L'eroe che cade e si rialza è uno schema narrativo universale

La lezione di Sinner sulla sconfitta
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La politica, si sa, è il regno del gruppismo, del conflitto e delle identità contrapposte. È questa la ragione per cui la comunicazione politica si rivolge prima di tutto ai «tifosi». Ciò comporta una serie di meccanismi prevedibili e talvolta perversi, tra cui uno dei più evidenti è quello di non riconoscere mai le sconfitte. Lunedì scorso abbiamo avuto l'ennesimo esempio. Il referendum non ha raggiunto il quorum, ma il Pd, invece di partire da quel dato e aprire una riflessione su una sconfitta politica, ha preferito contro-narrare, imboccando la strada dell'autocelebrazione. In un post serale ha esaltato i «13 milioni di Sì» come se fossero l'equivalente di un consenso superiore a quello ottenuto dalla destra alle elezioni del 2022. Poco prima, Elly Schlein aveva parlato addirittura di «14 milioni di voti, più di quelli presi da Meloni», appropriandosi, di fatto, anche dei «No». Così facendo, i contenuti del referendum sono diventati un pretesto, e quella consultazione è stata trasformata in un gigantesco sondaggio sul consenso per le opposizioni, svuotando se mai ce ne fosse ancora bisogno il senso autentico dello strumento referendario e mancando di rispetto a quegli elettori che hanno votato (o deciso di non votare) pensando che al centro ci fossero i cinque quesiti, non una prova muscolare del centrosinistra. Non si tratta solo di un post sbagliato o di una dichiarazione infelice. È il sintomo di un vizio più profondo: la politica italiana non sa perdere. Ogni sconfitta viene rovesciata, trasformata in «vittoria morale», oppure attribuita a nemici esterni e cospiratori. Ma se ogni voto è una conferma e ogni consultazione un'occasione per autoassolversi, la democrazia si riduce a spettacolo.

Proprio mentre la politica ripeteva le sue routine consolidate, milioni di italiani stavano guardando altrove un esempio opposto di comunicazione. Un esempio che viene dal mondo dello sport, ma che parla anche di leadership e di accettazione della sconfitta.

Domenica sera, Jannik Sinner ha perso la finale del Roland Garros: cinque set, tre match point mancati, una chiamata arbitrale a suo sfavore, cinque ore e mezza di partita col pubblico contro. Poteva polemizzare, stizzirsi, cercare alibi. Invece ha accettato la sconfitta, senza nascondere l'amarezza, ma anche senza una parola fuori posto. Era trasparente il suo senso della delusione, ma proprio per questo è stato autentico. Non ha avuto paura di mostrare la sua vulnerabilità. E da quel momento, la sua reputazione è cresciuta.

Certo, la politica non è il tennis. È più simile al calcio, perché è fatta di identità contrapposte, di retorica da stadio, di logiche da curva. La sportività, in politica, è spesso un lusso, a volte persino un errore. In certi casi però è necessaria e può diventare anche strategica. E quando un personaggio come Sinner giovane, vincente, maturo diventa un modello globale, il suo stile può trasformarsi in una lezione. Sinner oggi è il tennista numero uno del mondo, con un'attenzione mediatica globale e una potenza simbolica in grado di modellare l'immaginario collettivo. E quello stile fatto di forza nella vulnerabilità, coerenza nei momenti difficili, rispetto delle regole è, prima ancora che sportivo, un modello di leadership. E, attenzione, anche i tifosi cambiano, quando cambia l'icona a cui si ispirano.

Non è solo una questione di eleganza o di maturità. L'eroe che cade e si rialza è uno schema narrativo universale. Dalla tragedia greca fino al cinema contemporaneo, è la caduta a renderlo umano, e la capacità di reagire a renderlo memorabile. Funziona perché racconta qualcosa di vero, ossia che tutti perdiamo, ma non tutti siamo capaci di accettarlo e di reagire nel modo giusto. Ed è proprio lì che emerge l'eroismo. Per cui, saper perdere diventa la base su cui costruire una leadership.

La politica, se vuole recuperare fiducia forse deve iniziare a guardare a quel modello. Serve un linguaggio nuovo, fatto di umiltà, di rispetto, di umanità e autenticità.

Serve saper dire: questa volta non ce l'abbiamo fatta, ma ci siamo, vi abbiamo sentito, ripartiamo insieme. Perché la dignità nella sconfitta non è debolezza. È credibilità. E senza credibilità non si costruisce alcuna vittoria.

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