La sfiducia degli invisibili

La democrazia non funziona se ovunque si respira sfiducia, paura, frustrazione e rabbia. Non solo, con il tempo che passa va a male, come un pezzo di carne putrefatto

La sfiducia degli invisibili

Non stupitevi adesso per quello che sta accadendo in Europa o in America. La crisi culturale e politica dell'Occidente è il segno di una cancrena, un male trascurato che da più di trent'anni colpisce il ceto medio. No, non solo quello italiano. È un malessere diffuso e, in modo quasi beffardo, globale, con colori e intensità diversi, contagioso, anche quando non te lo aspetti. È carico di frustrazioni e paure, troppe paure, e con il tempo è arrivata una sorta di disperazione fredda, uno scetticismo che non ti fa credere più a nulla, disertando il voto o votando di volta in volta di pancia, di schiena, invocando la fortuna, con la riffa del gratta e vinci. È la risposta scontata di chi per un tempo lungo non ha ricevuto risposte. Non solo dalla politica. Non le ha avute dagli intellettuali e dai burocrati, dal mercato e dalla Chiesa, da chi investe e da chi predica, dai reazionari e dai rivoluzionari.

Quello che in Occidente viene chiamato populismo illiberale e non democratico è anche la conseguenza di tutto questo. Lo stesso vale per la feroce nostalgia di comunismo che si respira soprattutto tra le nuove generazioni. La democrazia non funziona se ovunque si respira sfiducia, paura, frustrazione e rabbia. Non solo, con il tempo che passa va a male, come un pezzo di carne putrefatto. A questo si aggiunge che stiamo vivendo dentro una rivoluzione industriale di cui non si conoscono i confini e mancano i cartografi, intellettuali e affini, in grado di interpretarla, di ridisegnare le mappe, di indicare punti fermi, cardini, per scacciare lo spaesamento. È una crisi delle élites che avviene quando la modernità ancora una volta irrompe nella realtà e le masse, disperse, si ritrovano con una potenza di caos mai registrata nella storia. Tutto questo avviene dentro un cambio di paradigma geopolitico, con un impero sempre più riluttante e un altro così popoloso da considerare la democrazia un pericolo, ma che a sua volta si ritrova a fare i conti con una classe media, cinese, allo stesso tempo irrequieta e impaurita.

Il ceto medio si è sentito invisibile, con un peccato di mediocrità sulle spalle. È un'Italia che si lamenta senza diritto. Non grida, non urla, non incendia le piazze, non si arrampica sui balconi con slogan apocalittici. È un'Italia silenziosa, che si alza presto, accompagna i figli a scuola, paga le tasse, fa la spesa, firma bonifici per le attività extrascolastiche, compila moduli per l'Erasmus, corregge i compiti di matematica la sera. È il ceto medio, quello vero. Non la caricatura da talk show, non la bandiera sventolata a ogni campagna elettorale. È l'Italia che tiene in piedi l'Italia. La paura del ceto medio non è teatrale. Non ha l'odore della tragedia, ma quello più inquietante dell'erosione lenta. È la paura di non farcela più. Di vedere evaporare il risparmio, la sicurezza, il futuro. Di scivolare giù, piano, ma inesorabilmente. Non è un tracollo, è un logoramento. Quanti anni sono che si va avanti così? Solo che adesso qualcosa è cambiato, perché le paure non sono più paure. Sono realtà. Certezza. Frustrazione e fallimento.

Sfiducia. È la parola che rimbomba. Madri e padri lo sanno, e ormai ne parlano senza nascondere il senso di colpa. I figli non staranno meglio di loro. Non avranno case, risparmi, pensioni, lo stesso tenore di vita quotidiano e con regali straordinari. Non avranno ciò che hanno invece ricevuto dai loro genitori. I padri sono stati peggiori dei nonni e questo vale chiaramente anche al femminile. Ora tutto questo è un sentimento sottile che ti segue mentre invecchi e guasta i successi, lasciando un'ombra comunque di inettitudine generazionale, e rende ancora più amare cadute e traversie. Si vive con il timore di ritrovarsi risucchiati all'indietro, con un buco nero indefinito e pieno dei peggiori sospetti che ti chiama all'appello. Non puoi non farci i conti. Molto spesso i padri o i nonni di chi ha trovato casa, con il lavoro e le opportunità, nel ceto medio erano contadini o operai. Il ceto medio per molti di loro era una prospettiva, un punto di arrivo, una soddisfazione, una promessa diffusa che la politica faceva balenare nelle menti più intraprendenti e laboriose, quelle che per i figli lavoravano troppo. Il lavoro come etica e la ricchezza magari anche come segno di riconoscimento sociale.

L'idea magari di far studiare i figli, perché una laurea non era solo un pezzo di carta. Studia e trova la tua strada. A sentirlo ora sembra una presa per i fondelli. Lo è. Questa visione del mondo, orientata al tempo che verrà, è stata la fortuna della Democrazia Cristiana, che non vendeva rivoluzioni, ma lasciava immaginare un quadrilocale alla periferia di Milano che con gli anni sarebbe diventato più centrale e una casa al mare con la speranza di ristrutturare perfino quella del paese di origine. Tutto, a pensarci, un po' troppo mediocre, ma che adesso sembra un'avventura e un sogno esagerato. Non era solo una suggestione di massa della Dc. L'idea che lavorare e studiare, in chiave addirittura gramsciana, avrebbe cambiato i destini personali e familiari apparteneva anche alla sinistra, soprattutto quella riformista. Era, in fondo, il principio etico di Berlinguer, la parola d'ordine dei «miglioristi» e il passo faustiano dei socialisti.

Le sfumature erano diverse ma tutte ti parlavano di due aspetti: mobilità sociale e welfare. È la chiave europea del secondo Novecento.

Poi tutto è saltato e il ceto medio va a ritroso, con l'angoscia di tornare contadini senza terre e operai senza fabbriche. È un brutto sogno, un sogno andato a male.

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