"Sovversivo e profetico. Ci serve Leopardi per volare oltre il cinismo"

Lo scrittore Antonio Moresco manda una "Lettera d’amore" al grande poeta: "Aveva già rivelato i rischi del progresso"

"Sovversivo e profetico. Ci serve Leopardi per volare oltre il cinismo"

Nessuno è insubordinato come un classico. Antonio Moresco prende Giacomo Leopardi, lo fa scendere dal piedistallo, ne riscopre la forza sovversiva, e infine lo trasforma in rondine per fargli fare un ultimo fiabesco volo sull'Italia. Lettera d'amore a Giacomo Leopardi (Solferino) è l'operetta morale di Antonio Moresco, già autore di probabili classici del futuro, come La lucina o il Canto del buio e della luce. Quest'anno ci sono stati gli omaggi ai classici sia al Salone del libro di Torino, sia alla Città dei lettori di Firenze. Ne parliamo con Antonio Moresco.

Prima di arrivare a Leopardi dobbiamo chiederci: cos'è un classico?

«Questa parola, classico, a volte mineralizza gli scrittori, li trasforma in statue. In realtà, i classici sono artisti che hanno scavato dei buchi dentro il loro tempo e dentro la cultura del loro tempo. Erano persone, come Leopardi, insubordinate, controcorrente. Leopardi contestava i miti dei suoi tempi. Ne guadagnò, si fa per dire, ostracismo e irrisione. Poi abbiamo capito il suo valore».

Nella riscoperta dei classici influisce la situazione storica drammatica?

«Ci sono motivi diversi. La coazione al nuovo tipicamente novecentesca si è rivelata suicida. Riscoprire i classici potrebbe sembrare la ricerca di un rifugio rassicurante. In realtà mi sembra che rispecchi il bisogno di riprendere un viaggio interrotto dalla modernità. Poi naturalmente viviamo in un tempo di accelerazione, di insicurezza, di rischio per la nostra stessa specie. Leopardi queste cose le aveva già divinate all'inizio dell'Ottocento, le aveva già viste e ci aveva detto la verità, anche se era scomoda».

In cosa Leopardi è scomodo?

«Sfata tutti i miti del progresso. Ci dice che l'idea di progresso illimitato ha una componente di astrazione suicida. Perché noi viviamo in un contenitore planetario sigillato dall'atmosfera. Come puoi pensare che cresci, cresci, cresci quando c'è un limite così. Poi Leopardi contesta l'arroganza antropocentrica secondo la quale possiamo fare quello che vogliamo del resto della natura. Noi siamo solo una componente della natura».

C'è una vena polemica in varie parti del libro contro i teoremi e le astrazioni...

«Leopardi mi ha insegnato due cose. La prima. Il fatto di portare la parola fino al canto: non usare una parola che duplica la realtà, ma conferire alla parola la forza del canto. La seconda. Mi ha insegnato a riconoscere l'astrazione. Leopardi la vedeva subito, difatti quando parla della filosofia chiama mezzi filosofi senza nominarli quelli che sono i maggiori filosofi fondativi del pensiero moderno».

È molto polemico anche il passo dedicato «alle piccole caste residuali della cultura».

«C'è stata, nella seconda metà del Novecento, un'idea debole della letteratura che poteva solo svilupparsi in modo auto-cannibalistico. Niente entra, niente esce. La letteratura era solo un gioco di specchi. Invece io ho un'idea forte della letteratura, e questo mi ha posto in conflitto con le idee alla moda».

Perché una polemica così forte contro il progresso?

«Leopardi non vede solo i concatenamenti concettuali e culturali con i quali puoi costruire tutti i castelli di carta che vuoi... Vede anche la nuda verità, la nuda vita. E quindi non crede alle magnifiche sorti e progressive. Non le capisce proprio. Fa mille esempi contrari. Leopardi ci dice che la vita è una carneficina senza l'immaginazione e quindi dà un significato enorme all'invenzione, all'illusione. Leopardi dice che chi predica la fine dell'illusione è ancora uno che si fa delle illusioni, perché ha un'idea tragica della vita. Se tu non inventi, non immagini, non aggiungi nulla, rimani stritolato in questa macchina di distruzione, di costruzione perpetua, permanente».

Poeta e filosofo?

«È diverso da tutti gli altri perché è poeta e filosofo nello stesso tempo. Il poeta corregge il filosofo e il filosofo corregge il poeta. Questa è una caratteristica unica».

Il progresso è stato il motore di una o più stagioni politiche. È rimasto qualcosa delle battaglie del Novecento?

«Non lo so, il problema è che adesso noi a forza di progresso, di presunto progresso, siamo arrivati a un vicolo cieco. Noi abbiamo un problema di sopravvivenza, adesso accantonato perché ci sono le guerre che attirano la nostra attenzione e preoccupazione. Ma ci sarebbe da rivedere il nostro cammino, le tante verità prese a scatola chiusa. Ci hanno portato a un passo dall'estinzione. Bisogna guardare con occhi diversi».

Mi faccia un esempio.

«Prendiamo l'idea che sorregge la selezione naturale di Darwin, un genio sia chiaro. Però l'idea che venga selezionato il più adatto alla sopravvivenza, mi fa venire un pensiero terribile: ma si è selezionato quello più adatto alla sopravvivenza o quello più adatto alla non-sopravvivenza, visto che siamo arrivati al punto in cui siamo? Perché hanno prevalso comportamenti che ci hanno portato a questo attrito drammatico con l'habitat, l'unico habitat nel quale noi possiamo vivere?».

L'invenzione poetica del libro è la trasformazione in rondini di Leopardi e dell'autore. Da cosa ha preso spunto?

«Lo spunto mi è venuto dal suo elogio degli uccelli, meraviglioso. L'altro spunto è il suo elogio del riso. Lui, il più pessimista tra gli scrittori ha detto una frase definitiva: Chi non ha paura di ridere, non ha paura di morire. Infine io sono sempre stato attratto dagli stormi, ne ho scritto molto, nella Lucina, ad esempio. Come mai, questi uccellini, che vivono isolati, a un certo punto si mettono assieme e seguono una rotta? Che tipo di intelligenza producono, tutti assieme? Riusciamo a stento a concepirla. Eppure ne avremmo bisogno in questo momento drammatico, perché noi dovremmo fare stormo e magari volare in un'altra direzione».

Il Leopardi-rondine, in volo sull'Italia, che Paese vede?

«Vede un Paese in cui il cinismo corrode tutto. Vede un Paese preda di un nichilismo soft. Non è il primo nichilismo, ottocentesco, che ti faceva vedere la parte in ombra della vita, il brutto, il buio. Adesso è un nichilismo soft, cinico, disincantato. Non è la posizione tragica di Leopardi, la posizione tragica è aperta. Invece la posizione nichilistica è una macchina difensiva: tu ti sei chiuso dentro in questo bozzolo, no? Noi abbiamo bisogno di Leopardi, abbiamo bisogno di Cervantes, questi sono i nostri maestri, e mi permetto di dire, i nostri leader politici. Se dovessi dire il mio leader politico, direi... è Don Chisciotte».

Perché?

«Perché ti tiene insieme la realtà e la forza

dell'immaginazione. Abbiamo bisogno di questa forza per non continuare a battere la testa contro lo stesso muro. E quindi Don Quixote ce lo insegna: la realtà e l'immaginazione, messe insieme, ti possono riaprire il mondo».

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