Alessandra Carati e quelle radici strappate dai cuori delle vittime

"E poi saremo salvi" è la storia di una famiglia di rifugiati bosniaci. Fra dolore e integrazione

Accade, a chi lavora nell'editoria, di venire a conoscenza di un libro molto prima che sia pubblicato, quando ha ancora la forma di manoscritto. All'estensore di queste righe è successo con il romanzo di Alessandra Carati E poi saremo salvi (Mondadori, pagg. 278, euro 18) pubblicato l'anno scorso e ora in semifinale al premio Strega, nella cosiddetta «dozzina». È un libro che ha avuto una gestazione lunga, soprattutto perché ha richiesto un approfondito lavoro di ricerca, e più di una stesura.

È la storia di una famiglia di rifugiati di guerra. La guerra dei Balcani, trent'anni fa, tre decenni che sembrano passati senza insegnare molto all'Europa, né al mondo occidentale. Attraverso lo sguardo della bambina Aida, seguiamo le vicissitudini di un'intera famiglia bosniaca, dissestata e sfarinata dalle persecuzioni delle squadracce serbe. In un conflitto, lo vediamo anche adesso, ci vanno di mezzo i civili, gli incolpevoli, e il dilemma che li strema è sempre il solito: restare o fuggire? Quelli che restano sono sempre più numerosi di quanto si possa immaginare. Prevale in loro il senso delle radici, del luogo di nascita, della casa. È quanto accade anche nel villaggio di Aida, sebbene lei e i suoi genitori siano fra quelli che partono, destinazione Italia.

«Il mitra puntato contro di me e le stelle immobili sopra la testa», è una delle ultime immagini che la bambina si porta addosso prima di varcare il confine, una parafrasi del celebre motto kantiano, dove la legge morale è sostituita dal kalashnikov. «Non avevo capito che fossimo già così disperati», dice la madre, non appena la famiglia è in salvo. Altri sono rimasti indietro, e fra loro alcuni spariranno per sempre. Il punto di vista su una guerra è, per l'appunto, fallace. Nessuno riesce mai ad averne il quadro completo, a maggior ragione chi ne è coinvolto in prima persona. Chi non se lo sarebbe mai aspettato, perché la Storia è assai più infingarda di quanto prevedano le nostre convinzioni ideologiche. Il padre di Aida ha un bel dire che a Sarajevo nove famiglie su dieci sono miste, i generali non guardano in faccia nessuno.

Ma non tutti sono assassini come le «Tigri di Arkan», i sicari di Miloevic. Il mondo è pieno anche di brava gente, e per una volta i buoni sono gli italiani che accolgono a Milano la famiglia di Aida. In particolare Emilia e Franco, coppia senza figli, ai quali Aida si affeziona, ricambiata. La storia procede per salti, attraverso i decenni. Nel 2001 l'integrazione della ragazza si compie attraverso il distacco dai genitori, dalle loro convinzioni troppo legate alla tradizione mussulmana. Lei sente di non aver più nulla in comune con i suoi coetanei del villaggio. Persino la lingua madre si fa imprecisa. Nel frattempo studia Medicina e guarda con preoccupazione al fratello minore, Ibro.

E qui si apre la seconda parte del romanzo, altrettanto ricca, che non ha più a che fare, se non indirettamente, con il trapianto da un mondo all'altro, ma con il disturbo mentale. Il bambino, poi ragazzo, ha qualcosa che non va. Manifesta segni di bipolarismo, poi di sindrome borderline, forse di schizofrenia, ma chi può saperlo, anche le diagnosi degli psichiatri possono essere molto imprecise. Ricoveri, dimissioni, psicofarmaci, riprese e cadute, zone d'ombra e fulminazioni della coscienza, tutta la trafila che le famiglie coinvolte in queste storie conoscono fin troppo bene. La mente che si estranea dalla realtà, e a poco a poco nemmeno la riconosce più.

Alessandra Carati ci offre un libro dolente, in cui però la sofferenza non calpesta mai il desiderio di vita, anzi lo alimenta. La scrittura è precisa, limpida, sempre scorrevole. D'altronde l'autrice ha debuttato adesso nella narrativa, ma non è certo una novizia del mestiere editoriale. Ha fatto la gavetta come ghost writer (fino a pochi anni fa in gergo si diceva «negro», a proposito di una persona che scrive libri per conto terzi, senza nemmeno apparire nei crediti o nei ringraziamenti - e lo dicevano anche gli insospettabili che oggi si vergognano delle parole). Poi è passata a collaborazioni che hanno goduto di maggiore riconoscimento, co-firmando biografie di grande forza emotiva.

Per esempio quella di Danilo De Luca, già campione di ciclismo (poi squalificato a vita per doping), Bestie da vittoria (Piemme, 2016). O quella dell'alpinista Daniele Nardi, che nel 2018-19 sfidò lo sperone Mummery del Nanga Parpat in un'ascensione che costò la vita a lui e al suo compagno di scalata Tom Ballard. Insomma, sa raccontare il mondo.

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