Cultura e Spettacoli

Brasillach il reietto che vide i "sette colori" del cinema

Il saggio di Claudio Siniscalchi "Senza romanticismo" racconta il rapporto tra lo scrittore e l'immagine

Brasillach il reietto che vide i "sette colori" del cinema

Ho cominciato a leggere Robert Brasillach da ragazzo. Ho poi scritto su di lui, ho prefato un suo romanzo, I sette colori, ho curato la pubblicazione e la traduzione di un altro, La ruota del tempo, gli sono rimasto insomma fedele negli anni, come capita con le cose della vita a cui si tiene di più, quell'amicizia, quell'amore, un certo paesaggio, un quadro, un film... Quando mi dicono che, in fondo, è uno scrittore minore, lascio perdere. Che vuol dire minore? Rispetto a chi, rispetto a cosa? Qual è il metro di paragone, il criterio di giudizio?

Se si vuole capire che cosa sia stata la Francia fra le due guerre mondiali, la sua testimonianza intellettuale resta imprescindibile, se si vuole capire l'attrazione e/o la tentazione fascista nelle democrazie all'epoca dei totalitarismi, pure. Quanto al narratore, pochi come lui hanno saputo restituirci quel sapore tutto proprio che ha la giovinezza quando parte in avanscoperta, si esercita nelle passioni, sogna le grandi imprese e intanto si lecca le ferite: la prima delusione, il primo tradimento, i passi falsi, le cantonate senza scampo. Minore? Lasciamo perdere.

Tutti i motivi per cui una certa musica di Brasillach continua a risuonare nella testa ogniqualvolta lo si legge si possono trovare ben allineati in questo saggio di Claudio Siniscalchi, Senza romanticismo (Bietti, pagg. 350, euro 20), apparentemente focalizzato sul cinema, di cui appunto Brasillach fu storico e critico esemplare, nonché all'avanguardia rispetto al proprio tempo, ma in realtà costruito a raggiera storia, politica, ideologia, cultura, costume, società intorno alla Francia di fine Ottocento e prima metà del Novecento, e quindi a ciò che in parte c'era prima di quel 1909 in cui Brasillach venne al mondo, e a ciò che in parte ci sarà dopo quel 1945 in cui dal mondo venne tolto. Siniscalchi sa benissimo che le nascite registrate all'anagrafe non bastano a racchiudere una vita, così come una lapide al cimitero non vi mette fine.

Uno dei pregi di questo libro è la naturalezza con cui il suo autore si aggira in un campo così accidentato qual è quello della storia delle idee e della storia politica, una naturalezza che è frutto della padronanza dell'una e dell'altra: Siniscalchi ha letto tutto, sa fare i giusti collegamenti, cerca di capire, non ha la presunzione di giudicare. Nel commentare la bipartizione di Walter Benjamin fra estetizzazione della politica e politicizzazione dell'estetica la prima negativa, in quanto fascista, la seconda positiva, in quanto comunista intelligentemente ne coglie il suo essere nient'altro che una bizzarria da sofista: nella realtà, spiega, in quanto fenomeni totalitari, fascismo e comunismo praticavano entrambe le opzioni, abbellivano cioè la politica e facevano dell'arte il suo braccio armato Ciò che semmai è interessante vedere è come concetti di questo genere venissero tradotti in quelli che regimi totalitari non erano, ma democrazie parlamentari più o meno in crisi, la Francia, l'Inghilterra, la Spagna, la stessa Germania almeno sino all'arrivo al potere di Hitler. Per restare alla prima, ci accontenteremo di notare che qui la destra intellettuale sarà più generosa nei giudizi critici rispetto alla sua controparte, intendendo ambedue in termini larghi quanto, va da sé, generici.

I motivi sono molteplici: a sinistra l'ideologia è più ferrea e non fa sconti, né letterari né amicali, laddove la destra è più spuria quanto fortemente condizionata dalle singole individualità. C'è in quest'ultima un'idea cavalleresca della vita nell'altra assente, che si riverbera in tutta una serie di scelte, comprese quelle artistiche, senza dimenticare la minore presa della cosiddetta forma-partito rispetto ai suoi militanti. Negli anni Trenta Bernanos se ne andrà polemicamente dall'Action française, ma non per questo gli verrà fatto il deserto intorno. Negli anni Trenta Paul Nizan criticherà il Partito comunista francese e sarà trattato da venduto e da traditore

(...)

Nel suo libro, Siniscalchi coglie benissimo un punto centrale della poetica di Brasillach, con il suo culto della giovinezza che vuol dire memoria, ricordo, fedeltà, modello di vita e modello comportamentale quando osserva che per quelli della sua età «la giovinezza è il cinematografo». Brasillach appartiene a una generazione che non ha fatto in tempo a conoscere la Prima guerra mondiale, il che lo rende meno cinico, meno disilluso, meno segnato e meno disincantato di chi come Drieu, Céline, Montherlant e Aragon quell'esperienza invece l'ha avuta e non l'ha dimenticata. La sua adolescenza coincide con gli anni Venti del Novecento, con la grande illusione (non a caso anche il titolo di un film di Jean Renoir) della «guerra che ha messo fine a tutte le guerre» e la scoperta, appunto, del cinema come vera arte del XX secolo, qualcosa che non ha paragoni, un nuovo linguaggio all'insegna delle immagini in movimento, il movimento che si fa verbo. L'accoppiata è esplosiva, tanto più che il cinema è un piacere individuale, ma anche di massa, che si può gustare insieme, gode di spazi fisici riconosciuti e quindi favorisce gli incontri e le frequentazioni, è una religione con i suoi riti, i suoi fedeli, i suoi officianti, il comune sentire di una stessa fede... Questa accettazione della modernità è in Brasillach tipicamente fascista, nel senso dell'uomo nuovo da lui teorizzato e di cui abbiamo già parlato. Siniscalchi nota opportunamente come Charles Maurras, che pure era stato il maestro politico del Brasillach dell'Action française, al cinema non fosse mai andato oltre la visione di Ben Hur... Non era il suo mondo, era un mondo che non capiva... Sulla cinefilia di Brasillach bisogna fare un inciso. Lasciando da parte l'Histoire du cinéma, in molti dei suoi romanzi così come nella memorialistica autobiografica, essa viene raccontata, rivendicata, fa parte della educazione sentimentale e della vita dei suoi protagonisti e di lui stesso. Non si trasforma però mai in feticismo, idolatria, rifiuto di ogni altra esperienza estetica. È troppo colto, Brasillach, troppo imbevuto di cultura classica per commettere l'errore di buttarla al macero. Ed è proprio per questo sufficientemente curioso per cercare di capire quanto e come le due culture possano fondersi e fino a che punto, specie nel momento in cui l'avvento del sonoro segna lo spartiacque fra il campo della pura immagine in movimento e ciò che verrà dopo e che però, è una sua riflessione, si deve mettere al servizio della prima, non prevaricarla. Il lettore, insomma, vedrà che Brasillach racconta esperienze, riflessioni, incontri e scontri che sono stati tipici della passione per il cinema almeno sino agli anni Settanta Ottanta del secolo scorso, quando ancora esistevano i cineclub e i cinema d'essai e insomma tutto quel coté cinefilo che a lungo è stato connesso con la giovinezza. Si capisce perché negli anni Cinquanta François Truffaut rendesse omaggio a Brasillach.

Erano della stessa banda.

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