Cultura e Spettacoli

Carlo Linati, l'irregolare che schernì il "green" prima della moda "green"

Lo scrittore lombardo nel 1906 raccontò ironicamente gli eccessi di certo ecologismo

Carlo Linati, l'irregolare che schernì il "green" prima della moda "green"

Stava sulle labbra di Ezra Pound e di James Joyce. Tanto per capire il personaggio. «C'è qualche italiano che sappia scrivere? Spero ancora di incontrare Linati a Milano... Chiederò a Linati qualche breve nota sulla mancanza di una letteratura italiana moderna», scrive, l'8 maggio del 1920, «a mano», da Venezia, Ezra Pound a Joyce. Incalza, qualche giorno dopo, da Sirmione, «Potremmo tentare anche Linati con un invito a cena a stare la notte...» (i materiali si trovano in Ezra Pound, Lettere a James Joyce, il Saggiatore, 2019). Segue, dall'Hotel Eden, Sirmione, cartolina di Pound, incontenibile pontefice, costruttore di eresie letterarie, di rapporti dorati da una furia esclamativa: «Dear Linati, Joyce arrived here last night». Non gli pareva vero di conoscere un italiano competente, versato nella letteratura anglofona, con un orecchio speciale per il linguaggio.

Carlo Linati e Ezra Pound avevano un'affinità, per così dire, sportiva: entrambi audaci, autodidatti in tutto, tutto corpo, verbo che si fa carne. Nato a Como nel 1878 da famiglia abbiente il papà era ingegnere , cresciuto a Milano, affetto scrive lui da «rosolia letteraria», Linati è lettore onnivoro e studente disordinato (si laurea all'Università di Parma nel 1906; a Torino più che ai corsi di Giurisprudenza, cui era iscritto, era interessato alle lezioni di Cesare Lombroso). Ama i viaggi nei luoghi inesplorati e inespressi, spesso compiuti in bicicletta; i reportage scritti per il Touring Club Italiano hanno un'ineguagliata freschezza. Per questo, di Pound carpisce subito la fisicità del sabotatore, di chi vuole rovesciare le sorti della letteratura, «Mentre il buon Pound parlava io fissavo la sua figura lunga svelta sportiva, dal viso aguzzo terminante in una barbetta a punta, un vero viso yankee temperato di dolcezza latina...», scrive, in un'intervista pionieristica, dal titolo «Fuoriusciti», pubblicata sul Corriere della Sera il 10 luglio del 1925 (ora in Ezra Pound, È inutile che io parli. Interviste e incontri italiani, De Piante, 2021). Con il «mio amico Ezra Pound, il poeta americano che vive a Rapallo» la sintonia è totale: su La Stampa, il 29 marzo 1929, Linati ricorda la visita fatta insieme a William Butler Yeats: «È un poeta, un saggio, e, come tale, un poco un indifferente»; nel 1923, dopo l'annuncio del Nobel per la letteratura, Yeats telefona alla moglie, crede che il premio valga pressappoco duecento sterline, che «se lo sarebbe goduto subito».

Proprio a Yeats, Linati deve la fama di traduttore raffinato. Sbarcato in Irlanda nel 1913, grazie all'amico musicista Franco Leoni aveva conosciuto gli autori della «Irish Renaissance»: John Millington Synge, Isabella Augusta Gregory, William B. Yeats, di cui, tra il 1914 e il 1919, con estro eroico traduce i drammi più importanti. Da qui, il 31 ottobre 1918, via Zurigo, la lettera di James Joyce, che si complimenta con Linati, personalità dall'acume insolito, coraggioso, ai «romanzi melensi che divora il pubblico inglese» ha anteposto i nuovi scrittori d'Irlanda. Sarà l'inizio di un rapporto autentico, sdoppiato, complesso: di Joyce, Carlo Linati preferirà tradurre Exiles (nel 1920, in prima battuta), Stephen Hero (1944), e un brandello dell'Ulisse (1926), ritenendo quel romanzo «di una difficoltà stragrande per non dire insormontabile».

Eppure, Carlo Linati non è stato soltanto il destinatario del cosiddetto «Schema Linati», la bussola per orientarsi nella lettura dell'Ulisse. Scrittore impaniato di humour torbido, di sgargiante verbosità, amato da tanti Sergio Solmi, Enrico Falqui, Giovanni Papini su tutti e sostenuto da pochi; autore di libri remoti, Nuvole e paesi, Amori erranti, Storie di bestie e fantasmi, connessi a una «linea» nordica autentica e autarchica (di cui è re, prima che Manzoni, Carlo Dossi), a tratti inavvertita, inventariata su vetri e nebbie, per lo più ineguagliabile (percorsa da autentici giganti: i Gadda-Testori-Arbasino...). Insomma, Linati, morto nel dicembre del 1949, era già «uno scrittore dimenticato» nel 1960 (così il titolo di un servizio di Arnaldo Bocelli pubblicato sul Mondo), figuriamoci oggi, un oggi in cui resistono, a sprazzi, le sue traduzioni, nota sul margine di un secolo smangiato dall'oblio, arreso a una dissacrante impazienza. «Spirito troppo fermentante per essere antico... Linati aveva l'ambizione di voler conciliare la novità con l'autorità della tradizione», scrisse di lui Cesare Angelini; esordì nel 1906, con una fiaba satirica, Il tribunale verde, stampato in cento copie numerate dalle Officine Grafiche E. De Castiglione. Il testo «frutto delle mie prime esaltazioni mistico-ironiche nella natura», scriverà, anni dopo, Linati ritorna, nel 1909, nella raccolta di racconti Cristabella, è recepito nel 1919 in Natura ed altre prose selvatiche. Ora il testo è tra noi in edizione definitiva, annotata che impila, minutamente, varianti, edizioni, sensi sottesi e disattesi a cura di Ermanno Paccagnini (Aragno, pagg. XLVIII+40, euro 15).

Il racconto è esile ed esilarante. Il protagonista, di mattina, «divinamente felice», mentre «il sole diluviava attraverso gli spazi cosmici», abbraccia, «con irresistibile tenerezza», una betulla. Gesto sconsiderato: «due terribili pungitopi» che si esprimono in «spiccato accento siciliano» arrestano il nostro eroe, accusato di aver abusato di una pianta. Segue processo intentato dal fatidico «tribunale vegetale»...

Il testo è brillante, sagace, corrosivo, un estroso controcanto alla natura matrigna di Leopardi, non adatto ai neo-vegani, ai neo-panteisti, a chi vuole proteggere la natura senza sporcarsi le mani. «Noi ci arrampichiamo sui vostri rami, vi cantiamo, vi dipingiamo e facciamo di voi solide casse da morto e ottime panche da scuole», dice il protagonista al cospetto degli alberi, arcigni. Alcuni passi rasentano la poesia: «Io amo l'onesto merlo, questo calunniato Amleto del bosco».

Troppo impegnato nell'intensità della vita, Linati non seppe progettarsi un futuro da burocrate letterato. Scrisse, con gioia, di tutto; firmò, con noia, l'antimanifesto degli «intellettuali non fascisti». Nel 1932, con l'avallo di Pound, pubblicò per Vallecchi una serie di ritratti di Scrittori anglo-americani d'oggi: vi spicca, ovviamente, «Ez», insieme a Hemingway, Virginia Woolf, Aldous Huxley. Nel 1903, con Filippo Tommaso Marinetti e Umberto Notari, aveva fondato Verde e Azzurro, una «rivista illustrata del movimento cosmopolita». Il lancio letteralmente fu folle: 300mila copie gettate ai passanti dai palazzi su piazza Duono. Il foglio fallì presto. Era così, Linati, un estremista, uno scapestrato, un olimpionico del bello.

Sorrideva spesso, cosa non comune tra gli scrittori.

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