Piernicola Silvis, foggiano, 64 anni, «36 anni da poliziotto, in strada», numerosi incarichi da dirigente, «gli ultimi tre anni e mezzo da Questore di Foggia, la mia città» e, anche, romanziere. «Ho iniziato a 48 anni, mi sentivo pronto e ho provato. È andata bene». La Lupa è il suo quinto lavoro, il secondo pubblicato da Sem (pagg. 500, euro 18) dopo Formicae (2017): il protagonista, come nel romanzo precedente, è Renzo Bruni, poliziotto del Servizio centrale operativo, che dà la caccia a Diego Pastore, pedofilo psicopatico in fin di vita che, grazie alla mafia del Gargano e alla ferocissima Lupa (capoclan moglie di un boss latitante), riesce a evadere dall'ospedale.
Come nasce Renzo Bruni?
«In Formicae ho deciso di inventarmi la figura di un poliziotto: visto che conosco bene le procedure e il codice, mi sembrava assurdo continuare a leggere di poliziotti inventati da chi non lo ha mai fatto...».
Perché Foggia e il Gargano come sfondo?
«All'inizio il libro era ambientato a Casal di Principe. Poi mi sono detto: sei foggiano, sei stato questore, ne hai viste di tutti i colori e, soprattutto, molti non sanno che a Foggia c'è la malavita. Così ho provato a scrivere di Foggia, anche per fare in modo che il problema della città - la cosiddetta quarta mafia - sia conosciuto».
In effetti non è molto noto, rispetto ad altre mafie.
«Si dimentica che è una mafia di bombe, rapine, omicidi. Nel Foggiano non ci sono solo il Gargano, l'olio e la mozzarella ma una malavita che schiaccia il buono - che pure c'è, e vuole emergere».
Il protagonista si arrabbia quando si accomuna questa mafia alla Sacra Corona Unita.
«Mi è successo davvero che, in Commissione parlamentare, venissero confuse. Ho risposto: Guardate che ci sono 300 km di distanza. La Sacra Corona Unita è un fenomeno del Salento, quasi scomparso. Quella foggiana è una mafia totalmente diversa, e in espansione».
Chi la controlla?
«La Società foggiana, in città e la cosiddetta mafia dei montanari, nel Gargano, si stanno unendo: sono mafie violente, di kalashnikov, bombe e fucili a canne mozze. Quando ero questore, a Foggia c'era una bomba ogni venti giorni. Solo che tutti se ne fregano».
Perché Bruni si arrabbia se lo chiamano «commissario»?
«Perché il commissario per noi in polizia non esiste: è una figura romantica, letteraria... Lo so che è pieno di commissari a destra e a sinistra, ma non è realistico».
E la violenza così feroce e brutale, come nel libro, è reale?
«Diego Pastore e le sue perversioni sono fiction, però hanno basi reali. La scena iniziale di lupara bianca è forte ma io, per il lettore, non volevo qualcosa di soft».
Perché?
«Voglio farlo indignare. Chiunque legga quello che fa Pastore tende a odiarlo. E poi non volevo un effetto tale da spingere il lettore a identificarsi con i malavitosi».
Pensa a certe fiction?
«Bruni è uno tosto. Vorrei che chi legge si identificasse nel poliziotto, che dicesse: voglio essere come lui, non come quella feccia. Lui è il vero duro, il vero modello, non i malavitosi».
Descrive anche le caratteristiche del vero boss. Quali sono?
«Deve avere carisma e spietatezza. E deve essere falso, cinico: il boss è uno che ride con un amico e poi, appena questo esce, ordina di ucciderlo».
Perché lo fa?
«È questo che lo rende temuto. Il boss deve essere temuto non solo dai nemici: anche gli adepti devono avere paura di lui. E quindi deve essere falso».
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