Così ci sveliamo dietro le maschere

Segreti e simboli di quelle del teatro antico, narrati da Giulio Polluce

Così ci sveliamo dietro le maschere

«Non dal volto si conosce l'uomo, ma dalla maschera», scriveva Karen Blixen: una frase con cui sarebbero stati senza dubbio d'accordo i Greci, soprattutto i seguaci di Dioniso, dal cui culto la maschera trae la sua origine. Il simbolo del dio «dolcissimo e terribile», con una natura al contempo distruttiva e amica, è per eccellenza proprio la maschera, che è contemporaneamente uno strumento del sottrarre alla vista e dello svelare. Presso tutti i popoli, infatti, segnala la presenza di uno spirito misterioso, perché il portatore della maschera è se stesso, ma anche un altro. In Grecia, la maschera coincide anche e soprattutto con il teatro, dato che i riti in onore di Dioniso avrebbero dato origine alla tragedia.

Secondo la tradizione, fu inventata da Eschilo, ma Tespi, il primo a rappresentare una tragedia, avrebbe utilizzato maschere di lino, a cui si accompagnavano, con ogni probabilità, cuoio e legno. Secondo Plinio il Vecchio, poi, le maschere di creta erano state create da Boutades, vasaio di Sicione, che costruì «ritratti in argilla» per placare il dolore della figlia innamorata di un giovane che doveva partire. E Lucrezio scriveva di «maschere di terracotta», mentre Virgilio testimoniava l'uso di intagliare «nel legno volti spaventosi». Legate con una cordicella o un nastro alla parte posteriore della testa, le maschere erano completate da una parrucca, la cui acconciatura poteva essere molto varia. Nonostante non ci siano testimonianze dirette, perché nessuna è giunta fino a noi, la fonte principale sulle maschere del teatro antico è l'Onomasticon di Giulio Polluce, sofista e grammatico del II secolo d.C., che descrive una serie di maschere della tragedia, della commedia e satiriche. Dal colore della pelle alla forma del viso, dal naso alla barba, dalla fronte alla bocca, dalle orecchie all'acconciatura dei capelli, Polluce delinea le caratteristiche delle maschere, facendo spesso uso anche della fisiognomica, secondo cui nell'aspetto esterno in particolare nel volto si rivelerebbero le caratteristiche morali dell'uomo: i capelli rossi, ad esempio, erano segno di cattivo carattere, il naso lungo di impudenza, la barba lunga indicava un temperamento focoso, così come le orecchie deformate «a cavolfiore», segno di rissosità (come avrebbe osservato anche Sherlock Holmes, che nelle Memorie di Sherlock Holmes notava «l'appiattimento e l'ispessimento caratteristico degli orecchi del pugile»). Alcune delle maschere descritte da Polluce sono riconoscibili nelle meravigliose raffigurazioni rinvenute ad Ercolano o a Pompei: come quella del «delicato», che, con la carnagione bianca e i riccioli «che ispirano desiderio», come scriveva Euripide nelle Baccanti, era con ogni probabilità la maschera di Dioniso; o quella della «giovane con la chioma tosata nel mezzo», quasi indistinguibile da una menade, con gli occhi spalancati, le foglie d'edera sulla fronte e uno sguardo contemporaneamente spaventato e spaventoso. Altre si possono ritrovare nelle opere superstiti: come quella del «gestore del bordello», ricorrente nelle commedie di Plauto, che lo definisce «pienissimo di frodi, scelleratezze, spergiuri, violatore delle leggi, impudente, porco».

Altre maschere, poi, raffigurano le cortigiane dell'antica Grecia, le etère: l'«etera dorata», ricca, indipendente e ornata d'oro, l'«etera esperta», nel pieno possesso di tutti gli artifici e le coquetteries del suo mestiere, e la «piccola etera», che non aveva bisogno di trucchi o raffinatezze, ma a cui bastava la sua ingenua, dolce bellezza.

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