Cultura e Spettacoli

Così Volt cercò di essere la dinamo del fascismo

Il suo vero nome era Vincenzo Vani Ciotti. Un saggio riscopre la sua energia culturale

Così Volt cercò di essere la dinamo del fascismo

All'inizio del 1925, all'indomani della svolta autoritaria di Mussolini, la rivista Critica Fascista, fondata e diretta da Giuseppe Bottai, pubblicò un articolo di uno scrittore, il conte Vincenzo Fani Ciotti (1888-1927), noto con lo pseudonimo Volt. Quell'articolo era intitolato Le cinque anime del fascismo e si proponeva di tracciare una mappatura ideologica del movimento mostrando come in esso coesistessero posizioni diverse e, almeno in apparenza, antitetiche: all'estrema sinistra Suckert (Malaparte) e i repubblicani nazionali, al centro-sinistra i sindacalisti rivoluzionari (da Edmondo Rossoni a Sergio Panunzio fino ad Angelo Oliviero Olivetti), al centro-destra gli ex nazionalisti e i seguaci di Bottai, all'estrema destra il gruppo raccolto attorno al quotidiano L'Impero, di Mario Carli ed Emilio Settimelli e, infine, in posizione più defilata, gli ultimi epigoni del cosiddetto «revisionismo». Per quanto si trattasse di una schematizzazione assai, forse troppo, rigida è pur sempre significativo che si fosse fatto un tentativo di cogliere, tanto sotto il profilo culturale quanto sotto il profilo politico, quella «eterogeneità» del fascismo a fatica riconosciuta dalla storiografia solo dopo gli studi di Renzo De Felice.

L'autore dell'articolo, Vincenzo Fani Ciotti, apparteneva a una importante famiglia nobile del viterbese ed era, all'epoca, già molto noto come scrittore politico e come polemista. Nell'anno precedente, il 1924, aveva pubblicato, per esempio, un volumetto intitolato Programma della destra fascista che, inserendosi nel dibattito allora in corso sulla natura del fascismo, offriva una suggestiva ricostruzione degli ultimi decenni di storia nazionale sottolineando la sostanziale affinità tra nazionalismo, in apparenza «conservatore e reazionario», e fascismo, in apparenza a sua volta, «rivoluzionario e progressista».

Al nazionalismo Fani Ciotti aveva aderito ben presto, all'epoca della guerra di Libia, anche se la sua iniziale militanza politica, conseguenza probabilmente dell'ambiente familiare e degli studi compiuti presso le scuole dei padri gesuiti, si era sviluppata all'ombra della Lega democratico nazionale di Romolo Murri. Poi le cose erano gradualmente cambiate: Fani Ciotti il quale, pure, sul periodico del movimento democratico cristiano di Murri, aveva criticato il nazionalismo come «un intruglio di imperialismo annacquato, di irredentismo dottrinario, di chauvinismo alla francese, di liberismo economico e di socialismo di stato» sostenne che non si sarebbero dovuti tacciare di «reazionarismo» i nazionalisti perché questi avevano tuttavia reagito alla «democrazia fiaccamente umanitaria e pacifista, internazionalista e antimilitarista in nome della forza e della energia di quel sempre vivo organismo che è la nazione». Parole, quelle di Fani Ciotti, ben rivelatrici della forza di penetrazione e della attrattività delle tesi di Enrico Corradini in vasti ambienti politico-sociali del tempo, a cominciare da quelli della piccola e media borghesia e della aristocrazia provinciale.

Genesi e sviluppi del pensiero politico di questo scrittore politico, originale e atipico nel panorama intellettuale del tempo, sono ricostruiti in dettaglio in un pregevole lavoro scritto da un giovane studioso di storia del pensiero politico, Alessandro Della Casa: La dinamo e il fascio. Volt l'ideologo del futurismo reazionario (Edizioni Sette Città, pagg. 240, euro 13). Il saggio, ad oggi il più ampio e articolato lavoro su questo singolare esponente della destra fascista, è frutto di puntigliosa ricerca archivistica, nonché di esegesi dell'attività pubblicista di Fani Ciotti e di approfondita conoscenza della letteratura storiografica sul periodo fascista e sul futurismo.

Fani Ciotti iniziò nel 1911 la sua collaborazione a L'idea nazionale e, vicino al pensiero di Enrico Corradini, presentò il nazionalismo come un movimento di opposizione a tutte le tendenze frutto del «pregiudizio ugualitario» di matrice «giacobina». Il casuale incontro nel 1916 sulla spiaggia di Viareggio col fondatore del futurismo Filippo Tommaso Marinetti segnò per lui una svolta. Il fascino della «Caffeina d'Europa» e quello dell'avanguardia lo conquistarono, lo spinsero persino a cimentarsi in uno romanzo ucronico, antesignano della science fiction italiana, La fine del mondo (1916) e lo portarono ad adottare quello pseudonimo, Volt, con il quale sarebbe diventato famoso, di sapore futurista e marinettiano usato per la prima volta nel volume Archi voltaici. Parole in libertà e sintesi teatrali (1916).

Entrato a far parte della pattuglia di intellettuali monarchici integralisti raccolti attorno allo scrittore Giuseppe Brunati, al settimanale Il Principe e al quotidiano L'Impero,di Carli e Settimelli, divenne uno dei teorici del «fascismo monarchico» sostenendo la necessità di tornare al costituzionalismo albertino nella direzione indicata a suo tempo da Sidney Sonnino in un celebre articolo del 1897 intitolato Torniamo allo Statuto. In altre parole, Volt si proponeva di «conciliare il fascismo, ancora tendenzialmente repubblicano, con la Monarchia» mettendo in dubbio la legittimità del cosiddetto «governo di gabinetto» e proponendo tout court il ritorno «alla lettera e allo spirito» dello Statuto Albertino perché, a suo parere, «la carta fondamentale del regno» tracciava «le linee di un governo costituzionale, sì, ma non parlamentare». Per lui nazionalismo e fascismo presentati, l'uno, come «conservatore e reazionario» e l'altro come «rivoluzionario e progressista» erano in realtà movimenti complementari destinati a incontrarsi e a portare avanti una rivoluzione che rappresentava «ideologicamente l'antitesi della rivoluzione francese». In un certo senso il futurismo rappresentava il trait-d'union fra i due movimenti.

Riferendosi ai giornali monarchici, pieni di intellettuali provenienti dalle schiere futuriste sui quali Volt andava pubblicando i suoi articoli teorici riguardanti soprattutto l'organizzazione dello Stato, Antonio Gramsci osservò poco prima della marcia su Roma che il futurismo aveva «perduto interamente i suoi tratti caratteristici» cioè sostanzialmente la dimensione rivoluzionaria e la spinta fortemente innovativa. Per lui, in altri termini, il futurismo stava acquisendo una vera e propria dimensione reazionaria.

Non è un caso, probabilmente, che proprio Volt, sulle pagine di L'impero, il 24 novembre 1923, coniasse l'espressione «futurismo reazionario» partendo dalla negazione della antitesi fra tradizione e progresso, fra reazione e rivoluzione. Della Casa, dopo aver ripercorso tutte le tappe di formazione e definizione del pensiero politico di Volt e aver sottolineato le polemiche dello stesso con Giovanni Gentile e Curzio Malaparte, si sofferma nel suo bel libro su quella che definisce «operazione futurismo reazionario». Essa consisteva nel tentativo sia «di revisionare il futurismo» attraverso l'innesto in esso di quel «carattere di antimodernismo moderno» individuato nel fascismo sia, al tempo stesso, di mostrare come «la commistione di istanze di rinnovamento e di restaurazione al futurismo (o almeno al marinettismo) fosse congenita». Tale «progetto» implicava il rigetto delle interpretazioni storico-politiche sostenenti l'incompatibilità tra futurismo e fascismo, ma, al tempo stesso, operava il recupero, in nome di una «classicità futurista» di talune importanti e significative espressioni dell'arte del Novecento nel contesto e nel clima del cosiddetto «ritorno all'ordine». Che l'«operazione futurismo reazionario» abbia avuto, o non abbia avuto, quel successo e quel seguito che Volt si augurava è altro discorso.

Comunque sia, essa testimonia del fatto che nel fascismo, proprio come aveva scritto Volt, coesistevano più anime, talora persino apparentemente inconciliabili.

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