Due giovani inquieti e soli fra tragedia e clownerie

Al Teatro Puccini di Milano le simbologie forti di "Yes I Am"

Un'immagine di scena di "Yes I am"
Un'immagine di scena di "Yes I am"

Yes I Am, al teatro Puccini di Milano, Sala Bausch, è l'opera urticante di un giovane autore/regista, Alessandro Rugnone, interpretata da due giovani attori (Viola Carinci e Daniele Giacomelli, alias Martin e Rocco), condotta sul filo di una rabbia profonda e non emendabile dal codice della buona coscienza del mondo adulto.
La domanda non è generazionale (chi sono i giovani?) ma radicale: che cosa significa «giovane»? Quali promesse premono, traducendosi in azioni al limite della follia, in musica scorretta (tutto diventa rap, anche il melodico napoletano), in azioni deprecabili (bruciare i capelli di un'insegnante), in fantasie apparentemente sciocche (considerazioni sui grani di caffè sul fondo di un bicchiere), in amori sempre impossibili? Martin e Rocco sono due giovani. Martin è il più piccolo e irrequieto, e sa urlare la sua disperazione soltanto in inglese. Rocco è più ingenuo, si perde in sogni ridicoli. Sono stati cacciati dalla classe, forse dalla scuola, ed è sulla porta di un mondo che li ha respinti che si svolge, sul limite della clownerie, la loro tragedia.
Soli. Questo è il ritratto dei giovani che esce da Yes I Am. Soli non perché incompresi ma perché condannati a non farsi comprendere. La loro è una lingua ostile: non sono cattivi, ma il loro modo di abitare lo spazio e il tempo è diverso. Per questo qualsiasi cosa facciano irrita. Tutto questo inglese. Tutto questo camminare veloci, tutto questo compiere azioni istantanee: scrivere testi di canzoni. Tutto questo gridare. E poi troppe azioni compiute così rapidamente espandono il tempo, così che l'ora abbondante di spettacolo diventano tre, quattro ore. Viene voglia di urlare per tutta questa irritazione che si accumula nello spazio-tempo dello spettacolo. Ma questo è il bello dello spettacolo: che non vuole «piacere», perché quello che ci «piace» è quello che non ci disturba.

Qui invece è di scena proprio il disturbo, perché l'argomento non è un tema, un problema sociale, un sentimento, ma l'irriducibilità dell'esistere, il puro esser-ci, rispetto ai valori, ai progetti della vita. Eppure proprio questa è la radice della vera tenerezza. Noi esistiamo, non siamo nulla. E così lo spettatore onesto capisce di non poter uscire irritato, sulle sue. Gli è chiesto il coraggio di un abbraccio.

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