Cultura e Spettacoli

Ecco il Rinascimento "sconosciuto"

Vittorio Sgarbi apre uno scrigno segreto di arte e bellezza nella Val Camonica

Ecco il Rinascimento "sconosciuto"

Non può dire di conoscere l'arte lombarda, e neppure la violenza di Caravaggio, chi non conosce l'arte della Valle Camonica, tra Quattrocento e Cinquecento. Un mondo che confina con quello delle città, Brescia e Lodi, in particolare, ma che si compiace dell'isolamento, e della meraviglia di trovare in borghi e paesi i pensieri più profondi sulla vita e il destino dell'uomo. Così li ha intesi, meglio di ogni altro, con l'ansia di chi disperatamente crede, e il godimento fisico, erotico, della bellezza, nel privilegio di sentirne il fuoco, l'inferno, la luce e il cielo, Giovanni Testori, pellegrino in Valle Camonica.

Ad aprire la strada, lasciando paradisi di bellezza nei luoghi più dispersi e remoti, era stato forse Lorenzo Lotto, a Credaro in una piccola edicola, e a Trescore, nella cappella Suardi, più ambiziosa, ma non meno appartata. Paradisi irraggiungibili o, a dir meglio, laterali, fuori dalle strade maestre, ma non per questo meno impegnativi per la responsabilità degli artisti, per il loro dovere di trasmettere la poesia con tutta la pienezza della loro ispirazione. E prima di Lotto, nel ventennio che chiude il quattrocento aveva sentito questo impegno il maestro di Cemmo, Giovan Pietro, popolare nel racconto, ma coltivato e non provinciale negli studi, compiuti nei luoghi necessari, Padova e Ferrara, Mantova e Milano. Nel santuario dell'Annunciata a Piancogno l'affresco di scuola cemmesca conservato nel tramezzo raffigurante le Storie di Cristo, affine alla linea lombarda e a Bernardino Butignone, convive con i prodigiosi accenti ferraresi del maestro presenti nel resto della chiesa. È con vero stupore che a Piancogno, sotto la luce di un cielo terso nel ritmo incalzante che scavalca l'elegante sintassi compositiva memore di Antonio Vivarini, sentiamo gli echi della pittura sonora di Cosmè Tura e di Ercole de Roberti, eredità di un probabile soggiorno padovano dell'artista e di un contatto con il magistero di Mantegna.

Un altro Giovan Pietro si propone, qualche anno dopo, a Esine, nella chiesa francescana di Santa Maria Assunta. L'impresa, ricorda Serafini, fu promossa dal rettore Isacco de Favis da Gandino, con il sostegno di due potenti famiglie locali, i Federici e i Beccagutti, i cui stemmi nobiliari appaiono alle pareti del presbiterio. Qui lo stile del maestro di Cemmo ha una svolta illanguidente, verso un ornamento di stampo miniaturistico evidente nell'Annunciazione e nei dettagli preziosi della veste del Cristo Pantocratore. L'ultimo decennio del secolo vede Giovan Pietro all'opera anche a Bienno, dove affresca l'Annunciata (1493-94), e nella cappella di San Rocco nella chiesa della Trinità a Esine (1495). Lo stile del maestro (che era stato così pronto a registrare le tensioni espressive delle personalità più radicali ed estreme, attive tra Padova e Ferrara) si dissolve ora in più tenui linguaggi di artisti cresciuti nella sua bottega, con formule usate e convenzionali. Così, come osservò, con occhio sicuro, Maria Luisa Ferrari: «vano è il tentativo mirante a distinguere le varie presenze degli aiuti, innegabili, ma che tuttavia procedono secondo le inflessioni che solo a Pietro appartengono». L'Annunciazione di Esine, ad esempio, risale al Polittico di Jacopo Bellini in Sant'Alessandro a Brescia, con un passo indietro che si ripercuote nella mandorla del Pantocratore nella volta del presbiterio. A Esine il linguaggio di Da Cemmo accusa una involuzione quasi inspiegabile. Nel pieno della maturità, muovendosi fra capoluoghi e pievi nella Valle Camonica, nel primo lustro del Cinquecento, facendo capo al convento di Sant'Agostino di Cremona, Giovan Pietro è a Brescia, Berzo Inferiore e a Crema. Sono gli estremi conati di un pittore illanguidito, che si guarda indietro e non si ritrova, come uscito da se stesso. E ancor più a Montecchio di Darfo, nella chiesa dei Disciplini, dove lo schema della Crocefissione si snoda in un ralenti che arretra la visione come se tornasse a una sintassi di primo Quattrocento, paratattica e crepuscolare. «Quantum mutatus ab illo!» (pensando al tempo di Piancogno).

Erbanno è una frazione di Darfo, come Montecchio, in Valle Camonica; ma meno di quindici anni dopo le ultime prove note di Giovanni Pietro da Cemmo, ben vivo ancora, poco lontano da palazzo Federici, dai bei portali rinascimentali, arriva da Lodi un maestro, pronto a sbaragliare ogni memoria della periferica cultura mantegnesca, portando il vento nuovo di Raffaello e di Tiziano: Callisto Piazza. Un grande maestro, a dispetto del suo nome poco reclamato. Callisto ha la stessa voracità del Caravaggio nel miscelare conoscenze e suggestioni di ogni cosa abbia veduto tra Milano e Venezia, a Cremona, a Brescia, a Parma, a Ferrara: Garofolo, Dosso Dossi, Ortolano, Moretto, Romanino, Correggio, Altobello Melone, Sebastiano del Piombo, Lorenzo Lotto, Pordenone, Gerolamo da Treviso, con una abilità nell'inventare la sua personalissima cifra, miracolosamente colta e originale di cui, in Valle Camonica, dà altissima prova. A Erbanno, nella piccola cappella dei Federici, i paesaggi hanno la poesia e l'amenità che scende direttamente da Giorgione: è la dolcezza delle colline venete. Indimenticabile è il volto della principessa offesa, mentre Giorgio la libera dal drago. Un'onda avvolgente di nubi è la placenta che accoglie la Vergine assunta, mentre gli apostoli si dibattono sulla terra. E sbrigativo, liberatorio è il gesto del muscoloso carnefice che affida a Salomè la testa del Battista, mentre, in alto, Erode ed Erodiade si affacciano sul luogo del delitto. Scenografo, regista, uomo di teatro di impareggiabile talento, Callisto prepara impeccabili teatrini per gli stupefatti e isolati abitanti di montagna a Borno, civilissimo paese premiato oggidì per aver dato i natali al cardinal Re.

Poco lontano dalla chiesa parrocchiale, Callisto prepara un padiglione, nella forma di oratorio di Sant'Antonio, per la tranquilla apparizione della Vergine fra i santi Antonio, Giovanni Battista, Rocco e Martino, in un luogo riparato della vicina campagna.

Posano la Vergine e i santi, come una compagnia di giro, alla sua ennesima rappresentazione per la gioia del popolo festante, loro un po' annoiati, ma sempre impeccabili, con gli sguardi perduti in pensieri lontani.

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