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"Hawking, l'amico geniale tra fisica, battute e litigi"

Lo scienziato americano racconta la vita e il lavoro del cosmologo inglese in una biografia molto intima

"Hawking, l'amico geniale tra fisica, battute e litigi"

La cosmologia, il Big Bang, i buchi neri, il tempo, i quanti, la gravità, i bestseller di fisica, sì, però c'era anche dell'altro: «La testardaggine è il mio pregio più grande» amava dire di sé Stephen Hawking. Con humor ma, anche, con verità, come racconta benissimo Stephen Hawking. Storia di un genio (Hoepli, pagg. 240, euro 19,90), la biografia scritta da Leonard Mlodinow, fisico formatosi all'università della California a Berkeley con Richard Feynman come vicino di aula, che ha portato avanti una carriera parallela da sceneggiatore nel mondo del cinema e della tv (Star Trek, MacGyver, Beyond the Horizon) e dei videogame (con Spielberg e Robin Williams) e da divulgatore scientifico. Era stato proprio Hawking a volerlo conoscere, nel 2003: insieme hanno scritto due libri, La grande storia del tempo, un ampliamento di Dal Big Bang ai buchi neri (Bur, 2015) e Il grande disegno (Mondadori, 2012). Nel marzo del 2018, quando Hawking morì, a 76 anni, ai funerali in chiesa, a Cambridge, c'era anche Mlodinow. «Stephen credeva che la morte fosse la fine di tutto (...) Eppure, mentre la bara mi passava accanto, ebbi l'impressione che dentro quella scatola di legno Stephen fosse ancora con noi». E infatti è proprio con noi, l'uomo «famoso in tutto il mondo per aver messo in subbuglio la fisica, per averne scritto ed esserci riuscito con un corpo malandato», nelle parole del suo amico Mlodinow.

Perché Stephen Hawking era un genio?

«Aveva una mente veloce e brillante. Riusciva a conservare un numero enorme di informazioni e di immagini nella sua testa e a elaborarle, in modo da trarre conclusioni senza l'aiuto di una lavagna o di carta e penna. Pensava in modo diverso, e ha escogitato delle idee a cui nessun altro era arrivato».

È stato soprannominato «il nuovo Einstein», ma lei non è d'accordo. Perché?

«Albert Einstein ha rivoluzionato tutta la fisica. Virtualmente, tutto quello che facciamo oggi dipende dal lavoro pionieristico di Einstein. Questo, semplicemente, non si può dire di Stephen. Il che non significa sminuire i suoi risultati: è stato una vera forza nell'ambito della cosmologia e della gravità quantistica».

Quando ha iniziato a lavorare con lui?

«Dopo che lui aveva letto i miei primi due libri, Euclid's Window e Feynman's Rainbow».

Avete lavorato insieme a due libri: qual è il più importante?

«Il grande disegno. Presenta le conclusioni a cui Stephen era arrivato dopo una vita di fisica».

E come è stato lavorare con lui?

«L'aspetto più complicato era il suo perfezionismo... Discutevamo all'infinito su ogni frase e su ogni singola parola. L'aspetto più affascinante è stato fare esperienza di come pensava: guardava alle cose in modo diverso, e molto geometricamente, intendo dire proprio per immagini».

Che persona, e che amico era Stephen Hawking?

«Era gentile e attento. Si interessava moltissimo di tutti coloro che lo circondavano. Aveva un senso dell'umorismo straordinario e una incredibile forza di volontà. Sembrava debole, ma era molto forte».

Come fisico, quali sono stati i suoi maggiori successi?

«Il suo risultato più importante è quella che è chiamata la radiazione di Hawking. Uno degli obiettivi cruciali della fisica teorica negli ultimi decenni è trovare una teoria che unisca la meccanica quantistica alla gravità, e la radiazione di Hawking è uno strumento importante in questa ricerca. Però ciò di cui Stephen era più orgoglioso era un'altra cosa».

Quale?

«Il suo lavoro con Jim Hartle, in cui mostra che, guardando indietro nel tempo, l'universo diventa sempre più piccolo, al punto che alla fine è così denso che il tempo stesso appare come un'altra direzione dello spazio. Non è il suo lavoro più influente nell'ambito della fisica, ma era il suo preferito».

Esiste una «eredità di Hawking»?

«Nel caso, direi l'idea che la teoria dell'informazione è un aspetto molto importante della fisica quantistica e gravitazionale».

Come mai non ha ricevuto il Nobel?

«Abbiamo sempre pensato che non lo avrebbe ricevuto, perché il suo lavoro non ha portato ad alcuna conferma sperimentale. È stata una teoria che ha avuto molta influenza, ma riuscire a verificarla era ben oltre le nostre capacità tecniche. Però poi Roger Penrose, che ha avuto una carriera simile, ha vinto il Nobel; e quindi oggi penso che, se Stephen fosse vissuto un po' più a lungo, lo avrebbe vinto e lo avrebbe diviso con Penrose».

Che cosa era più sorprendente e stimolante in lui?

«Era sempre una sorpresa vedere quanto fosse a suo agio con la sua disabilità, come avesse sempre un atteggiamento positivo e mantenesse il senso dell'umorismo. Aveva una volontà di ferro, che era una grande fonte di ispirazione e ti spingeva a credere che potessi superare qualsiasi ostacolo nella tua vita».

Avete mai discusso sulle questioni di fisica?

«Sì, abbiamo anche litigato. Per esempio, nel libro racconto di quando lui voleva scrivere che la filosofia è morta, e io non ero d'accordo...».

Dice che era profondamente spirituale: in che senso?

«Non credeva in Dio, o nell'anima, ma credeva nello spirito umano, e che esso fosse potente e bellissimo, grazie alla capacità di amare».

E Dio?

«Non aveva alcun ruolo nella sua cosmologia. Non credeva in Dio».

Aveva sempre bisogno di soldi, per via della sua malattia.

«Altre persone, nella sua condizione, probabilmente sarebbero state in una casa di cura, trattate come un paziente fra tanti. Per condurre una vita indipendente, Stephen aveva bisogno di assistenza 24 ore su 24: il sistema sanitario pagava il grosso delle spese mediche, ma non tutte, perché erano molto elevate».

Lui considerava la sua disabilità uno stimolo per la concentrazione: pensa che essa abbia influenzato anche il suo modo di pensare e di fare scienza?

«A causa della sua disabilità, Stephen non poteva ricorrere a una lavagna o alla carta e utilizzare le equazioni come fanno gli altri fisici, perciò aveva compensato imparando a pensare geometricamente, per immagini; e questo aiutava la sua fisica, perché gli forniva un punto di vista unico».

Secondo lei Hawking era ossessionato dalla fisica?

«Direi che Stephen non era ossessionato da nulla. Lavorava con intensità e con grande concentrazione sui diversi problemi che lo interessavano, e si interessava anche moltissimo alle sue relazioni. Però non le definirei ossessioni. C'è una sola eccezione... Quando era più giovane, se si metteva a lavorare a un problema, si isolava per settimane intere, o perfino qualche volta anche per mesi, fino a che non riusciva a risolverlo. Ecco, credo che questa fosse una specie di ossessione passeggera».

Nel libro scrive che Hawking amava conciliare posizioni opposte e, anche, che gli era capitato di ammettere di avere sbagliato. Sono caratteristiche abbastanza uniche nel mondo della scienza?

«Non direi uniche, però certamente molto utili. E molte persone hanno difficoltà con entrambe...».

Può raccontare qualcosa dell'ultima volta in cui ha visto il suo amico Hawking, in California?

«Il suo grande amico Kip Thorne era lì con noi, quella volta, e c'era anche Buzz Aldrin, l'astronauta.

Abbiamo chiacchierato per un paio d'ore quel pomeriggio, ma è stato triste, perché a quel punto Stephen riusciva a comunicare a stento».

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